Nicoletta Bruno

L’origine della violenza e della paura.

Commento a Lucrezio,

De rerum natura 5, 1105-1349

Studia Classica et Mediaevalia, Band 29

Rezension


Il V libro di Lucrezio è fra i più commentati dell’opera. Oltre ai classici Munro(London 1886), Giussani (Torino 1898), Merrill (New York-Cincinnati-Chicago 1907), Leonard e Smith (Madison 1942), Bailey (Oxford 1947), Ernout e Robin (Paris 1962), disponiamo infatti dei commenti specifici di Costa (Oxford 1984) e Gale (Oxford 2009), nonché di tre commenti parziali di diverso valore e impegno: quello di Jackson ai vv. 1-280 (Pisa-Roma 2013), di Salemme ai vv. 416-508 (Napoli 2010) e di Campbell ai vv. 772-1104 (Oxford 2003). A questi va ora aggiunto il volume di Nicoletta Bruno, dove sono passati al vaglio i vv. 1105-349 della Kulturgeschichte, dedicati alle prime forme di organizzazione politica e sociale, all’origine della religione, alla scoperta dei metalli e alla storia delle arti belliche.

Il volume è costituito da tre sezioni principali: una densa Introduzione (pp. 19-96), suddivisa in tre paragrafi; il testo latino e la traduzione italiana, preceduti da una Breve storia del testo del De rerum natura (pp. 99-126) e da una Nota al testo (p. 127); il commento (pp. 151-457). Seguono la Bibliografia finale (pp. 461-503) e due indici, dei passi citati e dei nomi e delle parole notevoli (pp. 507-25).
Nell’Introduzione, Bruno offre varie considerazioni interessanti: richiamiamo in particolare il confronto tra Tucidide e Lucrezio sull’uso dell’analogia come strumento ermeneutico per l’indagine del passato (pp. 25-49), un tema di cui la studiosa si è occupata anche altrove (“Dalla preistoria alla storia: l’analogia in Tucidide e Lucrezio”, eClassica 3, 2017, 8-29), e la sintesi sulla teoria lucreziana del progresso nel paragrafo appunto intitolato Quale idea di progresso nel De rerum natura? (pp. 50-71), che presenta un’ampia discussione delle fonti, dei testi paralleli e della bibliografia precedente. Rilevante è anche la trattazione dei concetti di paura e violenza nell’ultimo paragrafo, A History of Violence. Paura, guerra e conflitto interiore nel De rerum natura (pp. 72-96), dove l’analisi non si limita alla porzione testuale commentata, ma prende in considerazione i passi più significativi in quest’ottica dell’intero poema, facendo così emergere i nessi che collegano la parte affrontata in questo lavoro all’opera nel suo complesso.

Il testo stampato da Bruno è quello costituito da M. Deufert (Berlin-Boston 2019), con alcune modifiche elencate a p. 127 (alle quali va aggiunto che Bruno, a differenza dell’editore teubneriano, non segnala lacuna dopo il v. 1107) e illustrate nelle note ad loc. del commento. La traduzione è generalmente buona; tuttavia, in alcuni punti che ora passeremo in rassegna avremmo preferito altre soluzioni. V. 1107 ingenio qui praestabant et corde uigebant: la traduzione di corde uigebant con «accrescevano la loro forza nel cuore» non rende adeguatamente il valore statico del verbo, che qui ha lo stesso significato del precedente praestabant (di cui uigebant è appunto sinonimo, come Bruno riconosce nella nota ad loc., p. 163), ossia «to excel (in a particular quality, skill, etc.)» (OLD, s.v. uigeo 2b); corde («nearly equivalent to animus» per Bailey 1947, II, 848 ad 2.269) indica la «mente», l’«intelligenza» (le «facoltà intellettuali», p. 164 ad loc.). Vv. 1108-9 condere coeperunt urbis arcemque locare / praesidium reges ipsi sibi perfugiumque: Bruno riferisce sibi al precedente condere («iniziarono proprio i re per sé a fondare città»), ma l’ordo uerborum e il senso richiedono che il pronome dipenda dai contigui praesidium e perfugium. V. 1133 (1134 secondo il testo di Bruno) quandoquidem sapiunt alieno ex ore petuntque: quandoquidem non ha il valore temporale di «da quando» (come Bruno correttamente rimarca nel comm. ad loc., p. 187 e n. 164), ma quello causale di «poiché, dal momento che». Vv. 1143-4 inde magistratum partim docuere creare / iuraque constituere: la resa proposta, «quindi alcuni insegnarono a nominare magistrati e a fondare il diritto», presuppone che constituere non sia un indicativo perfetto, ma un infinito presente che dipende da docuere, come creare. Vv. 1156-7 etsi fallit enim diuom genus humanumque, / perpetuo tamen id fore clam diffidere debet: dalla traduzione («infatti anche se accade che sfuggano alla stirpe degli dèi e al genere umano, tuttavia non si deve disperare che ciò resterà nascosto per sempre») sembrerebbe che il soggetto di debet sia diverso da quello di fallit; il significato è che chi viola i communia foedera pacis (v. 1155) può anche ingannare gli dèi e gli uomini, e dunque uscirne indenne e impunito, ma non deve sperare che le proprie colpe restino segrete in eterno. V. 1162 [scil. quae causa] suscipiendaque curarit sollemnia sacra: più che «si sia preso cura di accogliere i solenni riti sacri», «abbia fatto accogliere», coerentemente con il valore causativo assunto dalla perifrasi curo + gerundivo predicativo. V. 1266 ut sibi tela parent siluasque ut caedere possint: non è chiaro perché Bruno (cfr. anche la nota ad loc., p. 367) intenda il primo ut consecutivo e il secondo ut (che è restauro di Lachmann, comunemente accolto, per il tràdito et) finale: «in modo tale da procurarsi dardi perché fossero in grado di abbattere i boschi». Entrambe le congiunzioni avranno valore consecutivo, come indicano l’uso dei congiuntivi presenti (a torto corretti da Lachmann in darent e possent) e il -que coordinante (cfr. M. Deufert, Kritischer Kommentar zu Lukrezens De rerum natura, Berlin-Boston 2018, 351-2 ad loc.). V. 1276 uoluenda aetas: la traduzione «il tempo, che necessariamente trascorre» implica che il gerundivo esprima un’idea di necessità, ma qui uoluenda equivale a quae uoluitur e veicola solo il concetto verbale (cfr. A. Traina, T. Bertotti, Sintassi normativa della lingua latina, Bologna 2015 [= 20033], 294). V. 1279- 80 inque dies magis adpetitur floretque repertum / laudibus: «ricoperto» non è la traduzione del tràdito repertum (stampato da Bruno), ma degli emendamenti repletum (Brieger) o refertum (Diels), non menzionati in apparato, ma respinti nel commento ad loc., p. 389.

La parte più consistente del lavoro è naturalmente rappresentata dal commento, dove Bruno tratta «in forma discorsiva» (p. 11 della Premessa) questioni ecdotiche, esegetiche e stilistiche. Varie sono le note utili all’intelligenza del testo e all’approfondimento di temi letterari, filosofici e storici di più ampia portata: sottolineiamo per es. l’attenzione rivolta alla semantica dei lessemi connessi alla sfera della paura (metus, pp. 207-8; horror, pp. 255-6; timor, p. 269; formido, pp. 314-5); la sintesi sui principali aspetti delle tesi realista e idealista (a proposito della natura degli dèi) nella nota introduttiva alla sezione sulla nascita della religione (pp. 230-45); le delucidazioni, sollecitate da uelatum del v. 1198 e pandere palmas del v. 1200, sulle modalità del sacrificio e della preghiera a Roma (pp. 288-9 e 295), con pertinenti rinvii anche alle arti figurative. A tratti, tuttavia, l’argomentazione risulta poco lineare, specialmente nelle discussioni di carattere filologico: si vedano, a titolo di esempio, le pp. 159-60 su 5.1105, dove Bruno definisce «incontrovertibili» le obiezioni mosse da Deufert (Kritischer Kommentar, 342 ad loc.) contro la correzione hi di Navagero (in codd.; hinc Bockemüller, rec. Deufert), salvo poi affermare che hi è «ancora oggi la scelta più convincente» (per ragioni non probanti, in realtà: il ‘parallelo’ hi di Sen. epist. 90.5 si trova in una frase molto diversa per sintassi). Vediamo infine più da vicino, seguendo la progressione delle pagine, una selezione di passi in cui non condividiamo pienamente l’analisi di Bruno. Pp. 246 e 248: ai vv. 1161-2 (nunc quae causa deum per magnas numina gentis / peruulgarit) non c’è una «relativa», ma una interrogativa indiretta; per converso, relative e non «interrogative» sono le subordinate dei vv. 1164-6 (quae ... florent ... / unde ... est .... / qui ... suscitat ...). P. 259: a proposito di non ita difficilest (v. 1168), B. afferma che è «formula piuttosto ricorrente della prosa», ma sono citati due esempi (Cic. fam. 10.25.3 plura me scribere ... non ita necesse arbitrabar; Quint. inst. 2.5.18 non ita difficilis ... quaestio) poco calzanti; da osservare, piuttosto, che lo stesso incipit si legge in Lucr. 4.1147. P. 269: al v. 1181 (et simul in somnis quia multa et mira uidebant), è quia ad avere valore causale, non simul. P. 272: i vv. 1185-7 «sono trasmessi, per tradizione indiretta, anche da Sext. Emp. Math. 9, 24 (68 A 75 DK)»: l’errore sembra da imputare al fatto che in Democr. DK 68 A 75, assieme alla testimonianza di Sesto Empirico (e a un’altra di Filodemo), è ricordato anche il passo lucreziano. Pp. 274, 317, e altrove: sedes et templa (v. 1188), populi gentesque (v. 1222) e simili non formano un’endiadi, ma sono coppie sinonimiche tipiche dello stile lucreziano, che è basato sul raddoppio (cfr. I. Dionigi, Lucrezio. Le parole e le cose, Bologna 20053 , 76-7). Pp. 304 e 387: non c’è chiasmo né in magni caelestia mundi / templa (vv. 1204-5; piuttosto, intarsio dei gruppi attributivi, secondo lo schema abAB: cfr. J.B. Hofmann, A. Szantyr, Stilistica latina, a cura di A. Traina, traduzione di C. Neri, aggiornamenti di R. Oniga, revisione e indici di B. Pieri, Bologna 2002, 14-15) né in uoluenda aetas commutat tempora (v. 1276). P. 352: la «clausola» di Verg. Aen. 1.359 (argenti pondus et auri) non può essere «letteralmente imitata» da Hor. sat. 1.1.41 per ragioni cronologiche; suppone, con buoni argomenti, un archetipo enniano A. Ronconi, Due nuovi frammenti di Ennio, in Id., Filologia e linguistica, Roma 1968, 151-3. P. 370: terra in luogo del tràdito terras al v. 1258 è un emendamento che, di contro a quanto asserito da Bruno, Lachmann propone indipendentemente dal Cippellarius. P. 389: «per la costruzione di floreo con l’ablativo», più che a 3.897 factis florentibus esse (su cui cfr. E.J. Kenney, Lucretius, De rerum natura Book III, Oxford 20142, 193 ad loc.), rinvieremmo per es. a 1.255 hinc laetas urbes pueris florere uidemus o a 5.912 gemmis florere arbusta. P. 401: non è chiaro come al v. 1294 ahenae (lezione della tradizione indiretta, Macr. Sat. 6.1.63) sia «un grecismo in luogo della ‘lectio facilior’ aenae»: -h- è un espediente grafico per facilitare la divisione delle sillabe, cfr. A. Traina, L’alfabeto e la pronunzia del latino, Bologna 20025, 49 (e per le varie grafie ahenus, aheneus, aenus, aeneus cfr. ThlL I 1444, 50-73). Le corruttele presenti nei manoscritti carolingi non sono dovute al fatto che «si trattava di un nome greco, che per facilità O ha letto athaenae [in realtà athenae], mentre il copista di Q ha ricopiato un erroneo athene», ma sono frutto di un fraintendimento: il genitivo femminile singolare dell’aggettivo latino è stato preso dai copisti per l’urbonimo greco, da cui si differenzia per la sola lettera -t-1

Il bisogno di un più ampio e approfondito commento a questa sezione dell’opera era avvertito, e dunque il lavoro di Bruno, nonostante alcuni passaggi discutibili, risulta apprezzabile e dovrà essere tenuto in considerazione dalle studiose e dagli studiosi di Lucrezio.

Leonardo Galli
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
leonardo.galli3@unibo.it


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