Il commento al V libro del De rerum natura di Lucrezio, vv. 1105-1349 a cura di Nicoletta Bruno reca un titolo: L’origine
della violenza e della paura ed è il volume 29 degli Studia Classica et Mediaevalia diretti da Hans-Christian Günther.
Pubblicato a Nordhausen nel 2020, è il prodotto finale di una dissertazione di dottorato, discussa a Bari e nata da una lunga
gestazione. Essa ha trovato solo il suo concepimento nella scuola di Paolo Fedeli, ma si è nutrita della lezione dell’Università
di Oxford nella persona di Stephen Harrison, della frequentazione di luoghi fondamentali e tradizionali per lo studio del
latino, come il Thesaurus linguae Latinae di Monaco, l’Abteilung für Griechische und Lateinische Philologie della
Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, e di due soggiorni di studio in alcuni tra i migliori centri di ricerca e di studio
nel campo degli studi classici, la svizzera Fondation Hardt e l’Institute of Classical studies di Londra. Lunga
quindi la schiera di coloro che hanno di certo giovato al lavoro della studiosa, che si cimenta nella stesura di un commento
analitico, come è d’uso fare tra gli studiosi lucreziani da qualche tempo. Non che mancassero esempi precedenti, ma i più
recenti erano stati solo parziali (G. Jackson, C. Salemme e G. Campbell), tralasciando proprio la sezione da lei
trattata, quella dei versi 1105-1349. Gli specialisti si erano basati fino ad oggi su quelli di C. D. N. Costa (Oxford, 1985)
e Monica Gale (Oxford, 2009), oltre che su quelli più datati (C. Giussani, C. Bailey, A. Ernout-L. Robin). La ragione per
cui è stata avvertita la necessità di un nuovo commento non viene chiarita con una dichiarazione di intenti ma si
manifesta nel corso della lettura e va cercata in un’ampiezza espositiva che deve dare conto ormai di un percorso ermeneutico
che va sempre avanti. Una lunga Introduzione (alle pp. 19-98) precede la discussione sul testo (alle pp. 99-127), il testo, la
traduzione e il commento. Si divide in paragrafi intitolati rispettivamente “L’archeologia lucreziana, l’universo e
noi”, “Quale idea di progresso nel De rerum natura?” e “A History of Violence. Paura, guerra e conflitto interiore
nel De rerum natura”. Nel primo, la studiosa illustra come la trattazione della storia dell’umanità venga affrontata da Lucrezio
con un metodo che lo avvicina a Tucidide, pur partendo da diversi presupposti. Entrambi avevano voluto cercare una archeologia
col medesimo distacco di chi non vuole farsi coinvolgere dal racconto, ma si erano limitati a descrivere i fatti al di fuori della
prospettiva antropocentrica per lo scienziato, personale per lo storico. Il materialismo offre al filosofo la base teorica per
riuscire in questa impresa, il procedimento analogico (di empedoclea memoria) è lo strumento per ricostruire un passato di
cui rimangono rare vestigia, ove solo lo sforzo della ratio può sopperire ad esse (cf. v. 1447 nisi qua ratio vestigia
monstrat), e ove il mito c’è ma è “latente”. La Bruno deve il riconoscimento di questi assunti specialmente a A. Schiesaro (1990),
M. Garani (2007), M. Gale (1994). Segue una presentazione generale dei contenuti portanti della sezione commentata, ove emerge il presupposto culturale (la teoria
“evolutiva e diacronica” del progresso di Democrito, diversa da quella “descrittiva e sincronica” di Aristotele), per approdare
alle domande relative all’autore. Il confronto con le sue fonti, schiettamente epicuree (epistola ad Erodoto, De pietate di Filodemo,
da confrontare con Diogene di Enoanda), e con una precedente bibliografia lucidamente riconosciuta, portano alle seguenti conclusioni:
1) d’accordo con D. Konstan, intervenuto di recente (2017) sullo stesso argomento, si rileva in Lucrezio la concezione di una
“evolutionary transformation” della natura umana da un primitivo stato asociale; 2) d’accordo con A. Schiesaro (1989b)
si evidenzia l’idea della gradualità del cammino umano verso la civiltà (pedetemptin progredientis, al v. 1453 e p. 61); 3)
con G. B. Conte (1990) si sottolinea l’eroizzazione di Epicuro come nuovo eroe della cultura contro l’ ignorantia e come cacumen dell’umanità; 4)
con C. Eckerman (2013), appare un Lucrezio che “creates, then, an idea of progress through the discoveries and developments
of multiple people”, entro la quale Lucrezio avvertirebbe specialmente la propria appartenenza alla categoria dei poeti e dei filosofi
impegnati in un pressoché sicuro percorso di avanzamento. E ciò si mantiene nonostante si avverta la sensazione che per tutto, natura
e forse anche arti e scienze, vi sia la possibilità di esaurimento. La terza parte dell’introduzione, sempre sulla base di una ampia documentazione, si sofferma sulle passioni, specialmente ambitio
e avaritia, che da Lucrezio sono poste alla base della natura umana. La facile contestualizzazione storica e politica di questa
visione delle cose convince sempre più gli studiosi a considerare il De rerum natura un’opera politica: il poeta rivelerebbe “la
piena pertinenza del messaggio epicureo nella cornice della crisi repubblicana” (p. 83). Ciò, tuttavia, non ci esime dal guardare
con altrettanta attenzione quanto spazio occupi il “conflitto interiore”, fatto di terror e di metus, di colpa e perfino di coscienza,
affrontabili solo tramite il ricorso allo studio dei foedera naturae. La definizione finale per questo poema è quella di Ch. Segal,
“un poema consolatorio”, nonostante sia sempre più spesso percepito come “political” (con D. Fowler) e nonostante si ammetta, con
M. Gale, che “warfare [...] is something alien to Epicurus” e che “the ‘beasts of battle’ and the limbs [...] serve as a symbolic
purpose, as emblems of futility”. La “Breve storia del testo del De rerum natura” è una comoda sintesi della storia del testo lucreziano, che passa in rassegna le
principali ipotesi, comprese le più recenti, sulla datazione della stesura del poema, sulla follia e sulla presunta edizione. Ivi
se l’interpretazione scelta per la parola emendare usata da Girolamo (Cicero emendavit) è “preparare il testo”, essa non sembra
lontana da quella che era stata già di U. Pizzani nel 1959 (Il problema del testo e della composizione del De rerum natura di
Lucrezio, Roma), ed è stata recuperata da Flores (I volume dell’edizione critica del poema, 2002, pp. 18-19), per il quale “emendare
non ha nulla a che vedere con una attività sia pure di emendamento” (ma nessuno dei due viene citato dalla studiosa). La storia
del testo viene ripercorsa a partire dalla presunta incompiutezza dell’opera (forse interpolata) e dalla supposta edizione di
Probo, fino alla descrizione dei codici medioevali e delle sue schede GVU, in una disinvolta rassegna che risulta di
comoda consultazione, e che è aggiornata sulla bibliografia internazionale corrente e sui contributi offerti da ultimo allo
sviluppo di questo aspetto da M. Deufert e D. Butterfield. Il testo prescelto è quello dell’edizione più recente, a
cura di M. Deufert, corretta in alcuni punti e giustamente descritta dalla studiosa nel suo aspetto saliente. Esso consiste nel
ritenere la tradizione “unitaria”, nel senso che i codici antiquiores del IX secolo, il codice perduto Poggianus e i codici
Itali (XV secolo) “derivano da un singolo archetipo (O)”, e che il Poggianus “discenda” dall’Oblongus “per mezzo di una
copia intermedia perduta” (p. 122). La conseguenza è che “gli Itali sarebbero utili solo per le congetture che tramandavano,
numerose e molto spesso convincenti”, tanto che “solo una parte dei dati [...] ha il diritto di figurare nell’apparato dell’edizione”.
La Bruno, pur basandosi su di essa, ammette di avervi portato delle modifiche. Di conseguenza, o forse, come premessa, nella
discussione relativa al testo come nelle scelte testuali, la studiosa sembra propendere per la soluzione offerta da Butterfield
(2013), che in maniera meno estrema di Deufert, ritiene che, se è vero che i codici umanistici “bear no independent authority for
reconstructing Lucretius’ text”, sia l’antigrafo di (P) che O furono ricollazionati in età umanistica, per cui le loro lezioni
cominciarono a entrare separatamente e in un secondo momento nella tradizione degli Itali” (p. 122, n. 156). La edizione di Butterfield
è ancora attesa per i tipi della Oxford, e, dunque, inevitabile appare il tentativo di integrazione, correzione, o sostituzione
di alcune scelte testuali fatte da M. Deufert, che spazza via semplicisticamente decenni, per non dire secoli, di sforzi filologici
fatti sui codici umanistici (oltre alla famosa formula pasqualiana dei recentiores non deteriores). Qualcuno potrebbe obiettare che
io sono di parte, e questo forse è vero: la questione è stata già a lungo dibattuta da due maestri della filologia lucreziana, M. D.
Reeve e E. Flores, in anni non lontani e di certo precedenti a Deufert e Butterfield, per cui non vale la pena di ripeterne qui le
battute. Tuttavia, spero che la curatrice non me ne voglia se sento di dover fare un paio di precisazioni. La prima riguarda l’affermazione che “tutte le copie datate XV e XVI secolo sarebbero derivate da O” (p. 115,
n. 139), ove il rimando a Reeve e Butterfield è accompagnato indebitamente dal nome di Flores. La nota salta
all’occhio perché chi non conosce la questione direbbe che il filologo napoletano abbia condiviso tale tesi mentre
egli non l’ha mai sostenuta, tanto meno nel 2006. Per di più 2003 e 2006 sono gli anni di due articoli (nel secondo è vero che
dibatteva la questione ma asseriva il contrario, in polemica con Deufert e Reeve) che di certo non spiegano le cose meglio di
come farebbe l’edizione in tre volumi (usciti tra 2002 e 2009). Più avanti la questione viene ripresa alla p. 121, ove
la studiosa precisa che Deufert, seguendo Reeve e Butterfield, e “contrariamente a Enrico Flores [...], ritiene che la tradizione
di Lucrezio sia unitaria”. Finalmente questa è la verità, ma anche qui nella nota sottostante, n. 153, la rivalutazione degli Itali
da parte del filologo napoletano viene semplicisticamente motivata dalla Bruno con la tesi degli Itali come “testimoni indipendenti
dalla tradizione carolingia”. In un lavoro di puntuale rassegna degli studi precedenti, come il commento della Bruno finora si è
presentato, c’era da spettarsi una maggiore trasparenza. Per di più, leggendo l’introduzione dell’edizione del Flores, sia nel I
volume del 2002, p. 14 che nel vol. III del 2009, pp. 16-17, si capisce che la questione era stata meditata e trattata per
giungere alla conclusione che “copie di O e di Q-Q2 possono essere circolate in Italia, dal 1440 o anni circonvicini, lungo
la direttrice Milano-Firenze-Roma-Napoli” e ancora che negli stessi anni “si fossero diffuse copie, in seguito perdutesi, della
tradizione a monte di O e di quella di Q poi corretta da un umanista Q2”. A leggere bene, quindi, non solo Flores non viene a condividere la tesi della dipendenza di (P) da O, ma viene ad
anticipare parte della tesi del Butterfield relativa alla circolazione in età umanistica di manoscritti medioevali. Un’altra precisazione mi pare obbligata quando la studiosa asserisce che la tesi della discendenza dei codici umanistici dall’Oblongus
“è stata una delle più accreditate” (p. 111), nella comunità scientifica di ieri e di oggi. Mi pare che si rovesci la situazione di
fatto. Tale tesi, infatti, venne proposta da H. Diels, riproposta da C. Mueller, di certo tra i filologi lucreziani non il migliore;
di contro nel corso del tempo ci sono stati A. Chiari (“RFIC”, 1924), gli editori C. Martin, W. E. Leonard e S. B. Smith,
C. Bailey, C. Buechner, e in ultimo E. Flores appunto. Oggi la rivalutazione degli Itali non trova fortuna presso la scuola inglese,
ma questa è solo la storia degli ultimi 40 anni. La situazione di ogni tradizione manoscritta, tanto più del difficile e controverso
testo lucreziano, è ancora più complessa di quanto appaia a prima vista e pur dopo secoli di tentativi razionalizzanti. E passiamo al testo, che pur basandovisi, rivisita alcuni punti dell’edizione Deufert, che omette dettagli interessanti
della tradizione manoscritta, siano o meno frutto di congetture (vedi oltre). Dal momento che la Bruno riscrive quasi del tutto il
testo di Deufert, non c’è molto da dire se non in rapporto alla presenza di qualche imperfezione e di qualche miglioramento apportato
dalla studiosa (per questi vedi il discorso relativo al commento). Il sol del v. 1192 è del Lambino e viene preferito al tradito nox
del consensus codicum, ma tali letture non trovano conferma nell’edizione di Bailey e di Flores, secondo i quali la congettura del
Lambino sarebbe invece ros, riportato in apparato in luogo del tradito sol. In base ad un controllo autoptico che ho sentito il
bisogno di fare di conseguenza, la lettura dei due ultimi studiosi citati mi è risultata corretta, per cui credo che l’errore sia
derivato da Deufert al cui testo la studiosa si è attenuta. In questo luogo, come dicevo, ambedue gli attenti filologi non vengono
proprio citati, mentre una parola in più sarebbe bastata per liberare il campo dal dubbio, che sorge inevitabilmente su quale sia
la lettura giusta, dei codici, del Lambino e di Deufert. Invece, la traduzione della Bruno è piuttosto buona perché in alcuni punti presenta dei tratti di viva sensibilità verso il
lessico lucreziano e le sue sfumature “emozionali”. A mo’ di esempio, felici mi sono sembrate nei primi versi le soluzioni “di
disprezzo in disprezzo” per contemptim del v. 1126; “immane feccia” per summam faecem del v. 1141; “con frenesia” per cupide
del v. 1140; “si sfibrava nelle inimicizie” per ex inimicitiis languebant del v. 1146; meno convincenti mi sembrano,
invece, “seguono la linea di condotta del più ricco” in luogo di “accodano al più ricco” o “seguono il più ricco” per divitioris
... sectam ... sequuntur; o “accrescevano la loro forza nel cuore” per corde vigebant del v. 1107 sempre nello stesso
arco di versi. Quanto al commento, esso costituisce la parte precipua del volume ed è evidentemente molto generoso, perché si
estende nelle pagine 149-461. A volte si ha la sensazione di una certa prolissità (i versi commentati sono 1105-1349),
ma a questa impressione subito fa seguito la constatazione che di ogni verso viene discusso l’aspetto lessicale, quello
testuale (specialmente se presenta dei problemi, per i quali si risale indietro almeno fino al Lachmann), quello esegetico,
con gli opportuni rimandi alle fonti non solo epicuree e alla bibliografia più aggiornata, italiana e straniera. Quest’ultima
è di certo descritta per i maggiori contributi offerti all’esegesi del passo, ed è in genere pertinente ed efficacemente sintetizzata; solo
di rado la mia preferenza sarebbe andata ad altro rispetto ai rimandi bibliografici scelti. Alla nota 137, ad esempio, S. Greenblatt e
A. Palmer, segnalati per la conoscenza di Lucrezio in epoca medioevale, mi sembrano poco costruttivi e per motivi diversi: l’uno per
la mancante scientificità dell’approccio (e la mancanza di un capitolo sul Medioevo), l’altro per il focus sul Rinascimento. Rispetto
a questi sarebbe stato più sensato rimandare alla bibliografia più datata, a L. Piazzi (2009) (e bibliografia indicata),
che almeno discute di Dante, Petrarca e Boccaccio, e a M. D. Reeve, cap. 12 alle pp. 205-213 di The Cambridge Companion to
Lucretius (Cambridge, 2007), che nella parte iniziale ricorda alcuni particolari interessanti. Facciamo una rapida rassegna di alcuni luoghi del commento. Nel passo sulla origine del diritto e della religione, è buona ed esaustiva la sintesi delle posizioni critiche prevalenti e
ben differenti tra di loro, e i rimandi sono puntuali, dato che passano senz’altro per i capisaldi bibliografici delle discussioni
avvenute sui temi. Nel primo caso la discussione sui probabili riferimenti storici e sulle fonti non solo epicuree (dal Bíos
Helládos di Dicearco di Messene a Ermarco), diverse da quelle del caposcuola Epicuro, completano un quadro che nei commenti
precedenti ancora abbisognava di una più precisa messa a punto; opportuna l’idea del latifondo alla base della
proprietà privata (la res del v. 1113, come bene aveva scritto A. Schiesaro nel 2007), come la ricerca di un evento storico
eventualmente alluso attraverso i regibus occisis del v. 1136 (tentativo presente, ma con diversa soluzione, solo nel commento
di M. Gale). Necessario è parso alla studiosa evidenziare il ricorso lucreziano ad un lessico già altrimenti usato nella sua
epoca: opportuno e immancabile è il raffronto con Sallustio (p. 156, benché sulla scorta di una ampia bibliografia). In un commento che nel complesso mi è apparso equilibrato, qualche imper-fezione si coglie quando, nel giro di pochi
righi, c’è un punto che avrebbe richiesto un chiarimento ulteriore: è il caso delle pagine 278-279 in cui prima “gli argomenti di
Deufert” sull’espunzione del v. 1192 – appunto espunto nel testo – sono reputati convincenti, ma poi si ammette che l’ipotesi
di Deufert di espungere il gruppo di versi “non convince”. Aggiungerei che appare troppo fedele al commento di Giussani,
di cui sembra almeno una sua parafrasi, quello della Bruno della p. 252, come alcuni righi della p. 103 ripetono le stesse parole
della Piazzi (2009) senza virgolette. Nel complesso, però, il lavoro si presenta di ampio respiro e di sicura padronanza dell’ampia bibliografia disponibile,
collocandosi di certo fra quelli più facilmente fruibili in un ventaglio di possibilità alternative, ma purtroppo o superate
dal tempo o comunque più stringate. La ricchezza della documentazione, inoltre, fa percepire l’esaustività di una trattazione che
si preoccupa di chiarire tutti gli aspetti, siano o meno problematici, della poesia, la filosofia, la storia del tempo e del testo
di Lucrezio. In egual senso, all’interno del commento apprezzabile è la discussione più diffusa di molti lemmi, come insitus horror
(p. 255, al v. 1165), o dell’epanalessi del v. 1164 (ma molti esempi si potrebbero fare), come è dettagliato il resoconto
di tutti i risvolti interpretativi che la critica ha saputo elaborare nel corso del tempo. Intelligente è il rimando a Ennio,
Annales, discordia taetra del v. 245 Flores per la discordia tristis del v. 1305, stranamente mai valorizzato dai precedenti
commentatori (Giussani, Bailey, Gale). Così la discussione sulla congettura Parthi rispetto a partim del verso 1310,
stranamente omessa da Deufert nell’apparato, qui viene recuperata e ragionevolmente giustificata con una “plausibile” “congettura
suggestionata dalla presenza di Poeni del v. 1303, e naturalmente dalla vicinanza cronologica di Lucrezio con la sconfitta a Carre
di Crasso” (p. 431). Inoltre, opportuno è l’accostamento in parallelo dei vv. 1275-1291 ai simili versi 1105-1116, come puntuale è
la ricostruzione delle testimonianze relative ai falciferos currus del v. 1301. Questi tentativi di contestualizzazione storica
sono molto graditi ai fini della piena comprensione del testo latino di Lucrezio, che, come altri della sua epoca, non dovrebbe
mai essere a mio parere troppo schiacciato sul piano esclusivamente speculativo. Nella stessa direzione vanno anche le precisazioni
sul pandere palmas dei vv. 1200-1201 sulle modalità della preghiera antica, e gli spunti di archeo-metallurgia tratti da Craddock-Lang
(2003) sulle metallurgie primitive per i versi 1241-1296, ove viene discussa a più riprese, non senza obiettività critica, la fonte
individuata come precipua da Bailey, cioè Posidonio di Apamea. La validità di questo lavoro è quindi indiscussa, ma qua e là, come tanti lavori pur validissimi, pecca di qualche difetto.
Da ultimo direi che da parte di una studiosa italiana e formatasi in Italia, se pur di adozione anglosassone, sarebbe
stato da aspettarsi un poco di spazio concesso a Giambattista Vico, ma è ovvio si tratti di un approfondimento non dovuto;
altrettanto perdonabile forse è l’omessa consultazione di una bibliografia italiana (come i saggi dedicati a questa
sezione del De rerum natura da T. Mantero per l’editore Tilgher di Genova, R . Papa per la Loffredo di Napoli,
e G. Sasso per Il Mulino di Bologna), e straniera (S. Cohen, Epistemology and the history of mankind, Ann Arbor, 1978), utile al
dispiegarsi della esegesi a questo passo, ma probabilmente non facilmente reperibile nelle biblioteche non italiane. Infine, proprio
nel finale mi sono imbattuta in un’altra imprecisione, sempre relativa all’edizione napoletana del Flores, che voglio pensare
sia stata ragionevolmente consultata all’uopo nei diversi casi in cui il testo della Bruno si avvicina di più a
questa che all’edizione di Deufert (si veda ad es. i vv. 1131-1132 collocati prima del 1127 già da Munro, a cui la studiosa rimanda).
La scelta finale della studiosa è quella di salvare i versi 1341-1349. Il lungo excursus, dedicato alla serie di editori (e non),
che dal Lachmann a Bailey, da La Penna a Mewaldt, hanno preferito espungere i versi, dimentica il filologo napoletano, che
non meno seriamente degli altri ha curato l’edizione critica del capolavoro lucreziano: non si capisce come mai, soprattutto
se si considera che si tratta dell’unico editore che, al pari del Bailey ma più di recente, ha conservato il testo, proprio come
preferisce la Bruno.
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