Paul Richard Blum (ed.)

Gasparo Contarini

DE IMMORTALITATE ANIMAE

ON THE IMMORTALITY OF THE SOUL

Studia Classica et Mediaevalia, Band 26

Rezension


Nato dalla collaborazione ormai pluriennale tra Paul Richard Blum (Loyola University Maryland, Baltimora), Elisabeth Blum (Loyola University Maryland) e il Center for Renaissance Texts della Palacký University di Olomouc (Repubblica Ceca), diretto da Tomáš Nejeschleba, il volume rappresenta un prezioso strumento di lavoro a uso di studenti e studiosi internazionali che intendano ricostruire le voci del dibattito cinquecentesco italiano sul - l'immortalità dell'anima umana. Si tratta infatti della traduzione in lingua inglese (con testo latino a fronte) dei due trattati di psicologia che il giovane patrizio veneziano Gasparo Contarini (1483-1542) - avviato a una brillante carriera diplomatica nonché ad assumere, nel 1535, la carica cardinalizia - indirizzava al filosofo Pietro Pomponazzi, a seguito della pubblicazione da parte di quest'ultimo dello scandaloso De immortalitate animae (1516).

Stando alla versione di Contarini - che di Pomponazzi era stato allievo durante gli anni di studio universitario trascorsi a Padova - il maestro gliene aveva inviata una copia, ed egli aveva messo per iscritto tutto ciò rispetto a cui aveva avvertito l'urgenza di un confronto: "My outstanding teacher, your wonderful and splendid disputation on the immortality of the soul, which you sent to me out of your kindness a few day ago, is in many points at variance with my thesis. I thought I would do something most useful if I tell you in writing what, in my view, must be though about the immortlity of the soul and which passages of your book I dispute" (A qua, excellentissime praeceptor, cum pulcherrima luculentissimaque illa tua de animi immortalitate disputatio, quam mihi pro tua humanitate proximis hisce diebus miseras, nonnullis in locis discrepet; rem mihi maxime utilem facturum me arbitrates sum, si quid mihi de animi immortalitate sentiendum esse videretur, quibusque in locis libelli tui dubitarem, tibi per literas significarem, pp. 36-37). Il seguito della storia ci è noto da Pomponazzi, cui l'opuscolo di risposta dell'ex allievo sarebbe stato fatto recapitare in forma anonima per mano del reverendo Pietro Lippomano, vescovo di Bergamo. Di qui - al di là delle intenzioni dell'autore che, come si è detto, doveva aver optato da principio per un contraddittorio di carattere privato col suo maestro - prendeva avvio la vicenda editoriale del trattato contariniano: Pomponazzi gli replicava nel libro I dell'Apologia (1518), includendolo all'interno del volume col titolo di Tractatus Contradictoris, ma sine nomine auctoris; lo scritto ricompariva quindi col medesimo titolo nei pomponazziani Tractatus acutissimi, utillimi et mere peripatetici del 1525 e infine nei postumi Opera (1571) dello stesso Contarini, insieme a una controreplica alle obiezioni dell'Apologia (De immortalitate animae liber I e liber II).

L'epiteto di contraddittore, da parte di Pomponazzi, non doveva corrispondere soltanto al proposito di rispettare la riservatezza di Contarini, ma doveva anche costituire verosimilmente un attestato di stima nei confronti dell'allievo, un modo per riconoscergli le capacità di condurre con un certo rigore le proprie argomentazioni. Fin dalla dedica a Sigismondo Gonzaga, all'interno dell'Apologia, parlando di coloro che avevano preso parte alla levata di scudi prodotta dall'uscita del De immortalitate animae, il filosofo aveva dichiarato di non fare di tutta l'erba un fascio, bensì di distinguere i propri critici in due gruppi, servendosi di un aneddoto su Apelle: narra Plinio il Vecchio che una volta il celebre pittore greco aveva accolto di buon grado le critiche mossegli da un ciabattino sulla fattura di un sandalo - e che anzi, avendole udite, si era affrettato a emendare il proprio errore d'esecuzione -, mentre aveva reagito con sdegno quando lo stesso ciabattino si era arrogato il diritto di fare commenti anche su ciò che era raffigurato al di sopra die calzari. Analogamente, Pomponazzi avevariscontrato in taluni - in primo luogo, in Contarini (ma anche nel domenicano vicentino Vincenzo Colzade, nel tomista cremonese Pietro Manna, nel logico bolognese Virgilio Girardi) - il buonsenso di esprimersi secondo le proprie competenze, oltre che di circostanziare e motivare le proprie ragioni; in altri, viceversa, solo una tendenza a trascendere i termini e i toni del discorso, più spesso a calunniarlo - categoria quest'ultima nella quale dovevano rientrare frati e predicatori veneziani (a causa delle cui rimostranze presso il Patriarca di S. Marco e i Senatori della città il testo del De immortalitate animae era stato bruciato nella pubblica piazza e ne era stata interdetta la vendita), l'agostiniano Ambrogio Fiandino (vescovo di Lamosa e suffraganeo del vescovo di Mantova, che attaccava Pomponazzi dal pulpito nella Quaresima del 1517), ma soprattutto l'aristotelico laico Agostino Nifo, con la sua pretesa di controbattere alle argomentazioni pomponazziane mettendosi a disquisire di quel che accade all'anima in stato di separazione.

Dal canto suo, per quanto volesse "to beat his teacher with the weapons he had received from him" (come sottolineano Blum e i curatori nell'introduzione critica al testo, p. 11), e cioè attenersi al principio di restare entro i limiti della pura razionalità, Contarini non mancava di enfatizzare la portata escatologica del problema - "For this question appeared to me such that the meaning of the entire human life must be gained from its unraveling" (Ea namque mihi quaestio huiusmodi visa est, ut ab eius explicatione totius humanae vitae ratio sumi debeat, pp. 30-31) - e pur con l'atteggiamento modesto e riguardoso dell'ex studente, rievocando gli anni padovani, prendeva le mosse dalla ripulsa del monopsichismo averroista, esprimeva le proprie perplessità esegetiche circa la tesi alessandrista della mortalità individuale difesa dal maestro (pp. 32-37) e, di fatto, si assestava su posizioni filotomiste. Perciò, al netto del rapporto di benevolenza che lo legava a Pomponazzi, quest'ultimo non poteva fare a meno di sottolineare quanto sia i critici che rientravano nel primo gruppo, sia quelli che rientravano nel secondo, fossero decisamente lontani dalla verità. Basti pensare, del resto, alla divergenza tra maestro e allievo rispetto alla questione cardine dello statuto ontologico dell'anima umana. Nel De immortalitate, Pomponazzi era arrivato a definire farneticante, oltre che infondato dal punto di vista peripatetico, il tentativo di Tommaso di attribuire all'anima due modi di essere di fatto escludentisi l'un l'altro, quello cioè di quo aliquid - consistente nell'essere qualcosa grazie a cui qualcos'altro esiste - e quello di hoc aliquid - consistente viceversa nell'essere sostanza determinata e per sé sussistente; per il filosofo, infatti, l'anima umana è, nella più stretta accezione aristotelica, atto del corpo, e cioè in definitiva una forma destinata a corrompersi insiemea quest'ultimo, e alla quale si può accordare tuttalpiù una certa posizione intermedia tra le forme materiali e le immateriali - un odore di immaterialità - per il fatto di non essere completamente immersa nella materia e di riuscire a esercitare l'attività intellettiva col solo impiego di un oggetto corporeo (le immagini sensibili prodotte dalla fantasia), ma non di un organo. A fronte delle critiche pomponazziane, però, Contarini portava avanti con seraficità l'opzione del duplice statuto dell'anima - "My answer is: no one should think it impossible that there is an act or form that perfects matter, which would be a certain-this and subsistent in itself" (Ad hoc inquam, ne alicui videatur impossible aliquem esse actum seu formam perficientem aliquam materiam, quae sit hoc aliquid et quae sit per se aubsistens, pp. 60-62) - sottolineando l'immaterialità dell'intelligere e del velle (pp. 70-71): l'anima intellettiva non è strutturalmente materiale né dipende da un organo, ed è in grado di pensare tutte le cose; inoltre, esercita il libero arbitrio e non si accontenta di questo o quel bene limitato, ma desidera il sommo bene, proiettandosi con ciò stesso in una prospettiva ultraterrena. Alla base dell'insistenza contariniana nel ricalibrare la condizione ontologica dell'anima si collocava un parallelismo convalidante tra quest'ultima e le Intelligenze, forme motrici dei corpi celesti eppure entità sussistenti (pp. 56-61). È risaputo che, meno di dieci anni prima, anche un tomista atipico come Tommaso de Vio Gaetano - altro grande nome coinvolto nella polemica immortalista - ragionando in termini cosmologici, doveva attribuire all'anima umana uno statuto ontologico e gnoseologico duplice, identificandola come quel rationabile medium che congiunge le forme totalmente materiali con quelle puramente immateriali: a beneficio di un ordinato gradualismo nella gerarchia degli enti, in altri termini, egli supponeva una dimensione (ultramondana e non sperimentabile) in cui l'anima fosse in grado di sussistere senza il corpo e di pensare senza il concorso die fantasmi. Cionondimeno, in quella stessa sede, il teologo si rendeva perfettamente conto di dover forzare a tale scopo il testo aristotelico in senso cristiano.

L'ineccepibilità filologica, d'altra parte, poteva costituire un problema per Pomponazzi (oltre che per il Gaetano), ma non per Contarini. E perciò del tutto opportunamente Blum e i curatori del volume evidenziano la contrapposizione tra due mentalità: "scientism" o "some sort of physicalism", "versus critical philosophy", "meta-theory" (p. 15); si potrebbe anche parlare di un'antitesi tra un approccio aristotelico-naturalistico radicalizzato (quasi riduzionistico) e un approccio di respiro decisamente metafisico. Un'antitesi, in ultima istanza, fondata sul fatto che qui, sul terreno della psicologia aristotelica, maestro e allievo stavano in realtà combattendo ciascuno la propria battaglia. Pomponazzi stava affrontando da docente laico un vero e proprio braccio di ferro ideologico con la teologia cattolica che, con la promulgazione della bolla lateranense Apostolici regiminis (19 dicembre 1513), aveva tentato di interferire nell'attività didattica universitaria sottomettendo l'insegnamento della filosofia al servizio apologetico delle fede: stando alle prescrizioni del documento conciliare, infatti, i professori di filosofia erano tenuti a smontare sistematicamente ogni eventuale teoria eterodossa presa in esame durante le loro lezioni e ad anteporle, con la massima persuasività possibile, la versione cristiana. Sentendosi così incalzato dall'esterno rispetto a quelle che erano le sue competenze istituzionali - interpretare autonomamente i testi dello Stagirita e insegnare ciò che può essere argomentato sulla base dei soli principi naturali - egli si opponeva con forza a ogni sovrapposizione tra ambiti epistemologici diversi, e anzi, non senza una certa provocatorietà, ne paventava i rischi - ad esempio, la delegittimazione spirituale di una dottrina come quella dell'immortalità dell'anima (la quale, riletta in termini naturalistici, poteva anche essere considerata un mero apologo per indurre gli uomini alla virtù). Per quel che invece emerge proprio dalla lettura di questi trattati sull'immortalità dell'anima, Contarini doveva essere orientato da tutt'altro spirito all'interno dell'indagine. Per un verso, egli doveva essersi sinceramente preoccupato per la presa di posizione del maestro, motivo per cui aveva tentato di dissuaderlo dalla pubblicazione del De immortalitate, come ci informa Pomponazzi riferendosi nell'Apologia all'affettuoso e amichevole scambio epistolare con l'allievo. Per l'altro verso, doveva essere altresì convinto - al di fuori di ogni faziosità - che un rapporto costruttivo tra lume naturale e lume soprannaturale fosse effettivamente possibile. E infatti, pur sostenendo la dimostrabilità razionale di questioni cruciali come quella dell'immortalità dell'anima (o dell'esistenza di Dio), non aveva alcuna difficoltà ad ammettere l'esigenza di appoggiarsi alla fede per tutta una serie di altre questioni, collaterali alle suddette - ad esempio, per supporre ciò che accade all'anima prima o dopo la congiunzione col corpo: "Knowledge of the immortality of the human soul, I declare, is attainable through natural reason and can be gathered from Aristotle's teachings. However, much of what pertains to the immortality of the human soul and what follows from it, I believe, cannot be perfectly perceived by natural reason, although we may employ some natural conjectures to explain issues; these are rather able to induce faith than to generate true knowledge. For instance: if the soul is immortal, what will be its disposition after death; and whether or not it existed before that body of which it is the soul? I think that natural reason is not at all sufficient to investigate these questions, even though we may employ some conjectures to explain them" (De animi humani immortalitate scientiam censeo ego ratione anturali haberi posse atque ex Aristotelis dictis colligi. Verum multa, quae ad animi immortalitatem consequuntur, illique sunt annexa, naturali ratione perfecte percipi non posse existimo, licet nonnullis coniecturis naturalibus uti possimus in illis explicandis, quae fidem potius faciunt quam veram scientiam pariant. Exempli causa: si anima immortalis sit, quaenam sit eius disposotio post mortem, et an ante corpus illud fuerit, cuius est anima necne. Puto ego rationem naturalem minime sufficere, ad horum investigationem, licet nonnullis coniecturis uti possimus ad huiuscemodi questiones explicandas, pp. 36-39). Agli occhi del giovane veneziano, in definitiva, non esisteva alcuna controindicazione nel concedere che la fede integrasse e desse compimento alla ricerca naturale: "Since, then, natural light proves that the soul is immortal but falters with regard to the status of the souls after death and can offer nothing certain, it is most congruent that this is brough to perfection by the supernatural light. Also, what has been perfected does not disagree with what the natural light has begun" (Cum ergo lumen naturalem probet animam esse immortalem, de statu vero animarum post mortem fluctuet nihilque certi afferre possit, maxime congrrum est, ut id lumine supernaturali perficiatur neque hoc quod perfectum est disconvenit ei, quod lumine naturali inchoatum est, pp. 256-257). Piuttosto, egli ravvisava maggiori pericoli in una posizione quale quella del maestro, che indulgeva all'autosufficienza e al solipsismo della pura ragione: "Therefore, since we are sure of whatever we know through natural light, there is danger that we deem to be fables what is said to be known through supernatural light and take this light to be some fiction" (Itaque cum nobis sint comperta ea, quae lumine naturali scimus, periculum est, ne putemus fabulas esse ea, quae dicuntur sciri lumine supernaturali, hocque lumen figmentum quoddam censeamus, pp. 256-257). Difficilmente si potrebbe immaginare, nonostante l'urbanità dei toni, un più perfetto dialogo tra sordi.

Annalisa Capiello


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