È ormai quasi un topos dare inizio al discorso su Tibullo lamentando la scarsa attenzione critica ricevuta finora dal cantore
di Delia e di Nemesi. I caratteri peculiari della poesia tibulliana la rendono infatti non omogenea rispetto all’opera sia
degli altri elegiaci romani che degli altri Augustei, tutti appartenenti al circolo di Mecenate: Tibullo canta tre oggetti
d’amore, fra cui un ragazzo, e non un’unica puella; rifiuta la guerra ma esalta il patrono Messalla anche in quanto condottiero,
partecipa ad alcune sue spedizioni e gli rimane fedele per tutta la vita; non menziona mai Ottaviano Augusto né la battaglia
di Azio. Questi caratteri, che dovrebbero in realtà sortire l’effetto di rendere particolarmente attraente il testo tibulliano
in quanto originale e ‘non omologato’, ne hanno invece determinato la marginalità. Influenti studiosi che hanno contribuito a det-
tare le linee del mainstream sull’elegia romana negli ultimi decenni del secolo scorso, quali G.B. Conte, D. Kennedy, P. Veyne,
tendevano infatti a prendere in considerazione ciò che di Tibullo appariva affine e contiguo a Properzio o all’Ovidio degli
Amores piuttosto che le sue peculiarità più ‘irriducibili’; peculiarità che rimangono a tutt’oggi in misura significativa
da indagare, nonostante l’interesse in primo luogo di Francis Cairns, autore di quello che può considerarsi il più dotto e
appassionato riconoscimento tributato all’arte tibulliana (Tibullus. A Hellenistic Poet at Rome, Cambridge 1979). Più in
generale, gli studi dell’ultimo mezzo secolo hanno spesso messo a fuoco l’oggetto ‘elegia latina d’amore’ invece che ‘elegia
latina e basta’, come considerando alla stregua di un’appendice o addirittura di un corpo estraneo i testi non, o non
principalmente, legati alla tematica erotica; e non sarà un caso, del resto, che i principali companions dedicati fino a
oggi all’elegia romana (rispettivamente a cura di B.K. Gold, Malden-Oxford 2012, e di T.S. Thorsen, Cambridge 2013) siano
incentrati sulla Love Elegy e non prendano in considerazione gli sviluppi eziologici e di ‘integrazione augustea’ più rilevanti. Uno ‘short’ Companion quale quello curato da H.-C. Günther (egli stesso uno studioso di Properzio) è il logico prodotto di
questa situazione di partenza: la formula del companion intende presentare a un pubblico non (o non solo) di specialisti un
quadro organico in relazione al proprio oggetto, tuttavia nel caso di Tibullo è arduo illustrare in dettaglio lo status quaestionum
tramite una serie di saggi autonomi dedicati rispettivamente a storia degli studi, trasmissione del testo, rapporto con la
tradizione greca e romana, temi principali, tecnica poetica, interpretazione, ricezione. Se i tempi non sono ancora maturi per
tracciare un quadro articolato della critica tibulliana, risulta giusta e opportuna l’iniziativa di proporre una introduzione
ridotta ma in ogni caso ben più ricca rispetto ai capitoli su Tibullo e sul Corpus tibulliano presenti nei vari companions dedicati
negli ultimi anni all’elegia o alla poesia d’amore. L’operazione ha fra l’altro il non piccolo merito di sottolineare la
complessita` e peculiarità di questo autore, aprendo prospettive e ponendo domande. E che dal volume non si ricavi un’idea
coerente di Tibullo non dovrà essere considerato un fatto negativo, ma al contrario uno stimolo alla ricerca e all’interpretazione. Il volume comprende tre capitoli, intitolati rispettivamente The Interpretation of Tibullus. Major Themes and Motifs. Tibullus
and Hellenistic Poetry. Tibullus and Roman Poetry (K. Newman, pp. 9-109); The Language, Style and Meter of Tibullus
(R. Maltby, pp. 111-134); The Corpus Tibullianum (P. Knox, pp. 135-160). Evidente, e del resto inevitabile, la sproporzione
fra due saggi che trattano ciascuno un ambito ben delimitato e circoscritto della poesia tibulliana e uno che ne affronta a
tutto tondo le implicazioni letterarie e culturali, toccando aspetti molteplici e che in un companion di ampiezza standard
sarebbero stati illustrati ciascuno singolarmente. Ma il saggio di apertura si stacca dai successivi soprattutto per un’impostazione
meno vincolata alle modalità cui i companions ci hanno abituati, proponendo per ammissione del suo autore le riflessioni di
uno specifico interprete in uno specifico contesto («the reactions of one particular reader in one particular context», p. 41:
dichiarazione orgogliosa, da parte di uno studioso che può permettersi senza infingimenti una parzialità di solito mascherata
tramite la comoda rubrica dei further readings). Per lo studente ignaro o per chi proviene da altra disciplina la lettura non
risulta agevole, e un’introduzione più accessibile alla poesia tibulliana dovra` essere tuttora cercata altrove (nelle pagine
dedicate a questo autore ad es. da Antonio La Penna, Paola Pinotti, o dallo stesso Hans-Christian Günther). Ciò non significa
che il contributo non sia meritevole di grande attenzione, e per più motivi. Il primo consiste proprio nel sottrarsi di un latinista di grandi dottrina ed esperienza (classe 1928) al vincolo dell’impostazione
informativa e didattica per proporci invece il ‘suo’ Tibullo. Nel corso del saggio, numerosi spunti contribuiscono a tracciare
il quadro affascinante di una poesia polifonica e sperimentale, schiva e umbratile per programma (un’idea fondata sul ritratto
di Albio che si legge in Hor. epist. 1.4 almeno quanto sul testo tibulliano), e il cui carattere (in realtà solo apparentemente)
impolitico piacerà all’età flavia – basti ricordare il noto giudizio di Quintiliano su Tibullo princeps fra gli elegiaci.
Questo al netto di posizioni francamente inaccettabili, la principale delle quali è l’attribuzione sic et simpliciter del terzo
libro del corpus ad Albio Tibullo; a essa aggiungo solo, come dato di colore, l’affermazione secondo cui l’uomo mediterraneo
non si fa problemi a tradire la moglie o ad alzare le mani (pp. 64-65). Il saggio introduttivo pone in rilievo soprattutto due aspetti: il Tibullo ‘politico’ e la ricezione della sua poesia. Vediamoli
perciò un po’ più in dettaglio. Questo Tibullo è un poeta che si trova a vivere sotto un potere autoritario e reagisce con
una risposta artistica e creativa che non si deposita, né lo potrebbe, in forma razionale (Newman usa in proposito il termine
‘trans-razionale’, mutuandolo dai Formalisti russi) e che assume un carattere specificamente musicale. La scelta del privato,
della vita in campagna, della musicalità riveste dunque un valore di protesta contro il sistema, protesta che si esprime a
volte anche tramite accenti del mimo e della satira. Il genere letterario con cui viene stabilito il dialogo più serrato è
tuttavia la poesia bucolica – rimane invece un desideratum per il lettore la menzione di Meleagro e più in generale dell’epigramma
ellenistico. È un Tibullo a vocazione pastorale, legato al modello di Teocrito e poi del Messalla autore di egloghe (ma in
greco, si badi, non in latino), quasi fosse quest’ultimo e non Virgilio a innescare un ‘revival’ del genere a Roma (cf. pp. 18, 87).
L’autore delle Bucoliche rimane all’opposto ai margini della trattazione in quanto appartenente al circolo di Mecenate: filo
rosso del saggio è infatti una radicale opposizione fra i poeti di Messalla e i «Maecenatians», rispetto ai quali Tibullo ela-
borerebbe un’alternativa improntata a minore gravitas (p. 55), in particolare non aderendo all’idea della sacralità e ufficialità
che caratterizza il concetto augusteo di vates (un ‘cavallo di battaglia’ di Newman fin da Augustus and the New Poetry, Bruxelles 1967).
Se una lettura ‘politica’ di Tibullo è senz’altro opportuna, l’impostazione qui adottata risulta però eccessivamente schematica,
ponendo un’alternativa ‘secca’ fra Tibullo da una parte e i poeti di Mecenate dall’altra e implicando un Messalla all’opposizione
o quantomeno non impegnato attivamente. L’idea di un’opposizione frontale e statica non tiene conto del fatto che, almeno mentre
Tibullo scrive il primo libro, ci troviamo in anni ancora in parte fluidi e di trasformazione, durante i quali la classe senatoria
avanza gli ultimi timidi tentativi di mantenere alcune delle antiche prerogative, come appunto l’esercizio del patronato letterario
e la celebrazione del trionfo (si pensi in proposito alle elegie 1.7 e 2.5): la poesia di Tibullo dà voce (anche) a questa esigenza
da parte del princeps senatus Valerio Messalla Corvino e dell’antica nobilitas, piuttosto che rappresentare uno sdegnoso e sterile
rifugio nel privato (una tesi che ho sostenuto in «MD» 81 [2018], pp. 63-81). Punto di forza del saggio è l’impostazione fortemente comparatistica: in particolare interessante che la qualità ‘musicale’
della poesia non venga vista come fuga dal mondo da parte di un sognatore dai nervi sensibili (il Tibullo della prima metà
del Novecento e non solo) ma come risposta all’instaurarsi della dittatura. La competenza di Newman in materia emerge in più
punti, nella menzione di compositori noti, quali Brahms, Chopin, Debussy, Richard Strauss, e meno noti – ho imparato fra l’altro
che John Field è l’inventore del notturno per pianoforte – e nella proposta di confronti anacronistici quanto affascinanti,
come quello fra il Tibullo deluso dal giovane Marato e situazioni straussiane, sollecitando in particolare il riferimento alla
Marescialla del Rosenkavalier (p. 59). Il saggio privilegia il rapporto con la cultura e letteratura russa e con il frate agostiniano
spagnolo Luis de León, vissuto in pieno Cinquecento in odore di eresia, traduttore di Orazio e Virgilio e autore fra l’altro di
un poema intitolato Vida retirada. Irresistibile in tanta ricchezza di suggestioni l’invito al gioco delle integrazioni.
Accogliendo la linea delle riprese tibulliane in periodi di crisi o in autori all’opposizione, potremo menzionare, per rimanere
in Russia, almeno Ossip Mandelstam, vittima delle purghe staliniane, che chiama Delia la donna amata; ancora, potremo guardare
alla Francia alla vigilia della rivoluzione (Tibullo piace a Chènier). Nella letteratura italiana, abbiamo l’imbarazzo della
scelta nei classicisti fra Settecento e Ottocento (Monti, Foscolo – quest’ultimo impressionato anche da Sulpicia che paragona a
Francesca da Rimini nel Discorso sul testo della Commedia di Dante [1825]) e poi soprattutto in Carducci, spec. Juvenilia 27
(A Febo Apolline, cf. Tib. 2.3) e 31 (A Neera) e il discorso Per il cavaliere Albio Tibullo e per la critica (1879), e nel
D’Annunzio di Primo vere e di Canto novo. Al di là di questi singoli spunti, è evidente come la marginalità di Tibullo negli
studi abbia investito anche l’attenzione allaricezione della sua poesia, così che le pagine di Newman incoraggiano a esplorare con
sistematicità questo aspetto tutt’altro che secondario e molto promettente. Complessivamente questo ampio saggio, il cui autore
è con tutta evidenza appartenuto a un’epoca nella quale non si scrivevano companions, ci fa percepire la poesia tibulliana come
qualcosa di vivo: e non è certo un risultato da poco. Nel secondo capitolo, dedicato allo stile, Robert Maltby fornisce una utile e sintetica carrellata, mettendo a frutto la
propria indubbia competenza tibulliana. Ne emerge un Tibullo al crocevia fra influenze ellenistiche e radicamento romano:
sono queste del resto le due principali ‘anime’ del poeta, poste in rilievo con valutazioni divergenti dagli studi (pensiamo
alle posizioni antitetiche di Francis Cairns e di Antonio La Penna – quest’ultimo mai citato in un volume a vocazione segnatamente
anglofona); l’analisi dettagliata di fatti formali contribuisce così per il lettore a tracciare un quadro più generale della
grande complessita` tibulliana e delle sue più significative componenti. Dopo aver sottolineato l’influenza sullo stile
tibulliano del Virgilio bucolico, si accenna come a un’ipotesi attraente ma indimostrabile al rapporto con l’elegante oratoria (e la
pastorale) del patrono Messalla, e viene rifiutata la tesi di un Tibullo seguace dell’analogia. Quanto al lessico, esso è più
sorvegliato che in Properzio e negli Amores ovidiani oltre che nel terzo libro del corpus Tibullianum – su quest’ultimo sarebbe
opportuno distinguere ulteriormente fra le varie sezioni, seppure certo correndo il rischio di una eccessiva frammentazione;
Tibullo, in particolare, è parco nell’uso di grecismi, composti, superlativi e diminutivi, mentre una sua specificità consiste
nell’attenzione all’etimologia e all’erudizione su base lessicale. L’articolo tratta poi le figure retoriche tipiche di Tibullo
rispetto agli altri elegiaci romani: prima fra tutte, come è noto, l’anafora e le varie forme di ripetizione, che possono essere
intese in rapporto allo stile dei carmina magici e religiosi ma anche alla poesia ellenistica; si passano inoltre in rassegna:
la tendenza a usare in accezione attiva aggettivi solitamente di senso passivo (tardus «che rallenta»; purus «che purifica»);
parole ed espressioni che si trovano per la prima volta in Tibullo (su tutte, aeterna urbs di 2.5.23); la tendenza ad aggiungere
prefissi per dare nuovo senso al verbo (circumtero, depluo, perrepo); gli arcaismi; l’uso dell’infinito perfetto al posto del
presente. In relazione ai fenomeni illustrati non risulta sempre chiara la differenza fra l’usus tibulliano e quello degli altri
elegiaci, in quanto mancano dati precisi e rilievi statistici: un’ulteriore strada da percorrere utilmente. Infine, per quanto
riguarda il metro (un oggetto su cui è ora d’obbligo far riferimento alle accurate analisi di L. Ceccarelli, Contributions to
the History of the Latin Elegiac Distich, Turnhout 2018), trovano conferma sia l’importanza dell’esperienza tibulliana nell’evoluzione
del distico elegiaco da Catullo a Ovidio sia il carattere sperimentale di questa poesia; in particolare, alcune peculiarità del
distico tibulliano non avranno seguito: è il caso dell’originale incidenza della cesura femminile al terzo piede (un uso derivato
dall’esametro greco ed evitato fra l’altro da Ligdamo) e la struttura rigida di dattilo e spondeo nel primo emistichio del pentametro,
dove Tibullo ha una forte preferenza per lo schema DS (intorno al 60%); una certa rigidità si rileva anche nelle collocazioni
preferite di sostantivo e aggettivo nel verso, secondo schemi che appaiono ripetitivi a paragone del più mosso e vario Properzio. Nel terzo e ultimo capitolo, Peter Knox illustra le principali questioni relative a quello che le edizioni recenti stampano come
terzo libro di Tibullo e che H. Tränkle, autore del commento di riferimento, intitola «Appendix Tibulliana»: raccolta composita
di testi alcuni dei quali, se non di Tibullo, almeno ascrivibili all’epoca e alla cerchia di Messalla, altri più probabilmente po-
steriori anche di molto. Origine della raccolta, attribuzione e datazione delle sue varie parti costituiscono altrettante vexatae
quaestiones delle quali viene fornita una messa a punto il più possibile nitida – e a tratti un poco schematica: del resto la
difficoltà di trovare la ‘quadratura del cerchio’ fra chiarezza espositiva e completezza dell’informazione, evitando la semplificazione
da un lato e la complessità eccessiva dall’altro, è nodo centrale nella scrittura ‘da companion’. In particolare, riguardo a Ligdamo,
Knox propone che il nome non sarebbe uno pseudonimo ma apparterrebbe a uno schiavo o a un liberto (pp. 139, 142), e conclude che le
sei elegie a lui attribuite «constitute a unique testimony to the flexibility of the genre in its application to love poetry» (p. 145). Pos-
siamo aggiungere che è certamente vero che su base metrica non si ricavano certezze quanto alla datazione (pp. 136-137), tuttavia il
volume di Lucio Ceccarelli menzionato supra ci fornisce ora qualche elemento in più: vi si osserva in diversi punti la notevole
distanza rispetto a Tibullo, la scarsissima probabilità che Ligdamo preceda Ovidio (p. 108 nt. 1), una qualche affinità fra Ligda-
mo e Marziale (cf. spec. p. 27 per la tendenza alla diminuzione delle realizzazioni dattiliche nell’esametro, che erano andate
crescendo da Catullo a Ovidio, e p. 95, per una certa larghezza nei due poeti nell’uso di clausole non bisillabiche nel pentametro).
Dettagli che considerati nel complesso vanno a corroborare l’ipotesi di un Ligdamo post-ovidiano e in particolare da collocarsi in
età flavia, secondo la datazione oggi prevalente e sostenuta da competenti studiosi, a partire dal commentatore F. Navarro Antolin
(Leiden - New York - Ko ¨ln 1996). Sul Panegirico, Knox si pronuncia a favore della natura di esercizio retorico rivolto a un
pubblico poco interessato all’attualità degli anni Trenta e più al suo posto nella prima età imperiale (p. 149); sulle elegie 3.8-12
(la cosiddetta Corona di Sulpicia), ritiene «not unreasonable» sebbene non dimostrabile che ne sia autore lo stesso Tibullo (p. 156)
e che comunque la datazione possa essere contemporanea a Tibullo stesso: ipotesi ardita non in linea con proposte recenti di cui ci
si aspetterebbe di trovar conto in un companion (in particolare Robert Maltby pensa al I sec. d.C., forse poco dopo la morte di
Ovidio, cf. The Unity of Corpus Tibullianum Book 3; Some Stylistic and Metrical Considerations, «PLLS» 14 [2010], pp. 319-340, spec. 331-334).
Infine, l’origine del terzo libro come Gedichtbuch viene collocata plausibilmente dal III al V secolo, epoca del passaggio dal
rotolo al codice, quando un compilatore avrebbe assemblato in uno stesso codice materiali in origine separati ma provvisti di una
loro coerenza complessiva intorno ai nomi di Messalla e Tibullo e in base al metro elegiaco (con l’eccezione del Panegirico in esametri). Un bilancio conclusivo porta a rilevare che il volume in esame costituisce uno strumento disuguale ma insieme molto stimolante
per gli studi non solo tibulliani, suscitando riflessioni e domande, prima fra tutte quella sulle ragioni stesse della marginalità
di questo autore, una sorta di ‘minore fra i maggiori’ che ancora offre un ampio ventaglio di possibilità di indagine. Rimangono
fra l’altro da approfondire questioni di metrica (ad es. le eventuali variazioni fra primo e secondo libro), di stile e di
ricezione. Oltre a indagare la fortuna di Tibullo in età moderna, potremo chiederci quanto il cliché del poeta elegante e
sognatore sia debitore a Orazio e a Ovidio (il quale fra l’altro non inscena Marato alle esequie di Tibullo, am. 3.9) e quanto
questo loro Tibullo ‘dimidiato’ e inoffensivo possa essere in parte almeno l’origine del revival in età flavia e in particolare
del libellus di Ligdamo (se, come anch’io credo, si tratta di un prodotto flavio). Infine, dal punto di vista sia del genere
letterario che della questione ‘politica’, trovo assai stimolante vedere nella poesia tibulliana una fase di passaggio, ancora
in parte fluida e nella quale per un attimo sono parse possibili strade alternative (fra l’altro un’elegia omoerotica e una
maggiore integrazione della nobilitas nel nuovo sistema) subito rivelatesi illusorie; una fase che possiamo cogliere con particolare
nitore grazie al punto di vista particolare del solo grande poeta dell’epoca che non aderì alla cerchia di Mecenate. Proprio le
ragioni che hanno decretato la marginalità di Tibullo possono insomma rovesciarsi in altrettanti motivi di interesse: e questo
short companion contribuisce in misura significativa a mettere a fuoco vecchie e nuove questioni di critica tibulliana. Elena Merli
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