Il libro riprende e sintetizza, «for the more general reader» (cf. quarta di copertina), le tesi che l’autore aveva espresso
per un pubblico di specialisti nel suo studio complessivo sulla materia. Lo studioso di Catullo non vi troverà molto di
davvero nuovo: ma le modalità con cui l’autore (= N.) intende presentare le sue idee ad una più vasta platea (inserendole
quindi in un più ampio dibattito culturale) offrono l’occasione per riflettere nuovamente su di esse, per un bilancio da cui
emergano con chiarezza spunti fecondi e anche, ed inevitabilmente, elementi più problematici. Rivolgendosi, per l’appunto, a lettori non specialisti, N. sembra costantemente preoccupato dalla necessità di chiarire un
equivoco ben radicato: Catullo poeta ‘d’amore’ in quanto poeta ‘di Lesbia’. Ora, tutto si potrà dire meno che questo sia
giudizio, per quanto parzialissimo, esclusivamente scolastico e privo di profonde radici culturali: avrà avuto il suo grande
peso anche il solo fatto che Catullo venga dapprima molto spesso accomunato ai poeti dell’epigramma e dell’elegia d’amore in
epoca antica (basti pensare a passi come Prop. 2.25.4; 2.34.87; Hor. Sat. 1.10.19; soprattutto Ov. Am. 3.9.62; 3.15.7; Trist. 2.427)
e che poi, dopo la sua ‘rinascita’ in età umanistica, venga comunemente trascritto ed edito (fino ad epoche relativamente recenti)
insieme a Tibullo, a Properzio o persino all’ovidiana epistola di Saffo. Naturalmente, in ambito scientifico si tratta di
tema non più esattamente d’attualità (anche grazie all’opera di studiosi come N.), ma è comunque importante riflettere ancora
su quali siano le modalità, varie e persino insospettate, in cui l’eros caratterizza la poesia di Catullo. Egli è bensì
«love poet», scrive N. in modo del tutto convincente, ma nel senso che la sua poesia è percorsa da mille temi e passioni
letterarie e civili, ‘romane’, che ingiustamente sono poste in ombra rispetto al ‘romanzo di Lesbia’. La stessa idea così
catulliana di bene velle viene coerentemente inserita in un universo civile e morale, con il confronto opportuno
con Lucil. 1326-1338 Marx: la virtus («manliness» per N.) è l’essere defensorem hominum morum-que bonorum, | hos
magni facere, his bene velle, his vivere amicum. Il discorso erotico catulliano oscillerebbe, secondo N., tra virtù etiche, quiritarie, e persino ‘virili’ (ivi inclusa la
forza del legame amicale) e ‘arrendevolezza’, debolezza d’amante. Esso andrebbe interpretato nel senso di un alternarsi di
personae, secondo un gioco di rappresentazioni dell’ego che molto si richiama alle modalità del teatro. Tale gioco sarebbe
suggerito al lettore fin dalla scelta del termine nugae (accostate ai mortualia in Plaut. Asin. 808, dello stesso metro
‘funerario’ dell’endecasillabo falecio e persino del giocoso tema sepolcrale del carme 3 (pp. 24-26): la poesia sarebbe, per
Catullo, sguardo carnevalesco, sulla vita e sulla morte, capacità di vedere l’umano nelle sue contraddizioni e ipocrisie,
nel sublime, nell’ignobile e nel ‘basso corporale’, in una sorta di ‘foolery’ che molto deve all’idea di ludus teatrale, al
comico come erede ‘secolarizzato’ dei rituali scenici collettivi di elaborazione del lutto (i mortualia, per l’appunto).
Coerentemente, per N. le maschere che l’io catulliano (l’‘amante appassionato e fragile’, l’‘amico fedele’, il ‘Romano’ erede
dei valori della virtus, il raffinato ‘poeta’ ellenizzante) assume nel corso del libro sono parte essenziale di questo gioco
(p. 47): «Suppose we take Catullus to be an actor on an imaginary stage, in a ... transformed from experiences. He plays
many, incongruous roles. The devoted lover is one of them. The young man about town with an eye for pretty face, male or female,
is another. He writes these contradictory parts, carefully attentive to Alexandrian poetic precepts, but at the same time,
paradoxically, like his friend Calvus, who also assailed both Pompey and Caesar, painfully aware of the wrong direction being
taken by Roman politics, willing in that cause to be guilty of what Quintilian would eventually call insania ». Ora, questa costruzione è sicuramente in sé coerente e riposa sugli studi che N. ha condotto sulla cultura teatrale
ellenistico-romana, e alessandrina in particolare (ed è evidente il peso della tradizione della lingua e delle tecniche del
teatro nella poesia di Catullo): ma se posta a confronto in modo davvero serrato con i testi, essa comporta fatalmente una
serie di questioni e di difficoltà che, a parere di chi scrive, ne minano l’impianto. Credo sia un falso problema, anzitutto,
quello della contraddizione tra un «lover» totalmente disfatto, completamente assorbito dalla sua vicenda erotica e la scrittura
di carmi raffinati che denotano non solo e non tanto ampiezza di interessi (familiari, civili etc.) ma anche perfetto controllo
sui propri mezzi d’artista: su tale questione credo abbia scritto pagine definitive Franco Bellandi. Non si tratta di credere
ingenuamente al dispositivo ‘biotico’, ‘autobiografico’ che l’ego catulliano propone (di «autobiographical phallacy» parla N., pp. 13-14):
le esperienze di vita sono rielaborate per inserirle in un sistema di temi e motivi letterari, ed è proprio la nuova configurazione
che esso assume (rispetto alla commedia arcaica latina o all’epigramma ellenistico) a costituire uno degli aspetti più affascinanti
della nuova poesia di Catullo. Che Catullus sia persona letteraria (persino se le personae dovessero essere molteplici)
non può significare sic et simpliciter una totale teatralizzazione (anche nelle forme di comunicazione con il pubblico) della poesia,
semplice copione di sketch destinato alla scena o alla performance aurale (né andranno prese alla lettera testimonianze relative ad
una esecuzione ‘cantata’ dei carmi catulliani, come tende a fare N.: cf. ad es. p. 9, a proposito di Prop. 2.34.87-88). D’altra
parte, l’‘incoerenza’ di rappresentazione sembra davvero non sussistere: la ‘fedelta`’ a Lesbia non implica, naturalmente,
l’assenza di altri rapporti e legami, anche non occasionali, persino prescindendo dalla nostra (come del lettore antico) totale
ignoranza riguardo a tempi, cronologie e modalità delle diverse liaisons dell’ego catulliano. Non assistiamo ad un ‘romanzo
di Lesbia’ che si alterna a siparietti realistici sugli amorazzi con altre donne o sulla relazione con Giovenzio, come se fossero
momenti irrelati ciascuno connesso ad una distinta persona : non si tratta delle diverse maschere di un io frammentato,
plurale, ‘teatrale’ (l’amator infelice di Lesbia, il giovane scapestrato che chiede fututiones a Ipsitilla nel c.
32 o si lamenta delle richieste esose di Ameana nel c. 41, il cicisbeo di Giovenzio). Rilevare un’incoerenza di rappresentazione
tra questi momenti, se percepiti in riferimento ad un unico ego, sembra operazione che si basa su preconcetti riguardo a ciò che
sia lecito o meno in ambito erotico relativi da un lato al nostro orizzonte di moderni, dall’altro alla sovrapposizione (indebita)
con la successiva poetica elegiaca: davvero non si tiene in considerazione che tutti questi elementi, e tutti insieme, possono
essere tranquillamente attribuiti all’esperienza di un singolo membro della jeunesse dorée a Roma in età cesariana, benché
N. parta proprio da un esame di ciò che storicamente poteva essere la percezione dell’eros nella cultura greco-romana dell’epoca.
Cosa significherà mai l’onnipresenza proprio del nome di Catullus da un capo all’altro del Liber (con gli accenti
disperati dell’amante traditonel c. 8 o con quelli della calda amicizia tra sodali nel c. 50 o ancora solo per comunicare una
bravata erotica nel c. 56 etc.), spesso in auto-allocuzione, se non che si vuole suggerire al lettore che una è la persona
protagonista di questi versi e delle vicende che in essi si rappresentano e che è proprio l’alternanza di registri nell’esperienza
reale di un soggetto che diviene elemento fondante (direi) di poetica? E in ciò si arieggiano e si riadattano in modo geniale ad
un nuovo contesto letterario (epigrammatico, nugatorio o elegiaco) le modalità del monologo dell’adulescens della commedia o
dell’apostrofe alla propria ... dell’epigramma ellenistico. Raccontare un’esperienza universale grazie all’arte significa questo, che si vuole esattamente comunicare al lettore che quelle
esperienze sono state filtrate da un ego che racconta e che le ha vissute, e trasfigurate, a suo modo: ‘mettere in scena’ le
proprie esperienze significa scriverle e modificarle fino ad una misura che non è dato conoscere ai lettori di tutti i tempi
(e guai ai Furio e Aurelio che ci provano: sembra essere questo il senso del c. 16); non significa che la parola diviene auratica
e il teatro medium di comunicazione con il pubblico (cf. di contro N., pp. 29-30). Scrivo di ‘lettori’ non a caso, perché dalle
pagine di N. sembra completamente sparire tutta la raffinata ed elaboratissima poetica del liber di poesia, come pregevole
manufatto destinato alla lettura: essa caratterizza non solo la dedica del c. 1 o la celebrazione della Zmyrna nel c. 95,
ma persino gli attacchi scommatici, da quello blando del c. 22 a quelli più robusti dei cc. 14 e 36, fino ad arrivare al tema
della carta anus arra di fama imperitura per Allio in 68.46 (espressione che ha il suo pendant scoptico in 78.10). Tutto
il tema del legame tra libro e letteratura non ha spazio nella trattazione di N.: a corollario, egli è costretto a pensare ad
una sopravvivenza precaria del lascito letterario di Catullo almeno fino alla tarda età giulio-claudia e a Marziale (p. 30),
ciò che difficilmente si riesce ad immaginare da un punto di vista storico. Che un editore postumo abbia avuto accesso alle
‘carte’ e persino, come si ipotizza, ai brogliacci di un autore defunto da così lungo tempo è ipotesi che andrà destituita di
fondamento: il lascito di Catullo fu anzitutto librario e, se opera di un editore si può immaginare sull’‘inedito’, essa deve
essere stata di poco successiva alla morte dell’autore; successivamente possono anche esserci state altre fasi che hanno portato
al definitivo assetto del Liber così come lo conosciamo, ma è impensabile che i primi passaggi di questa storia si siano
svolti altrimenti. L’autore ritiene (coerentemente con il suo approccio all’opera catulliana) che l’Attis sia una pantomima. L’ipotesi non
è in sé assurda, ma andrebbe perlomeno più ampiamente argomentata; essa si sviluppa poi in un confronto (discutibile,
se si parla di allusività) con un brano dell’Agamennone di Eschilo (707-710, cf. N., pp. 33-34), in cui si noterebbe il cambio
di ritmo dal metro dell’imeneo allo ionico a minore anaclastico che caratterizza il galliambo: il c. 63 sarebbe dunque carme
legato ad una performance teatrale che quasi, nel nostro Liber, prende il posto (capovolgendone il senso) dei due epitalami che
precedono (N. arriva a chiedersi se Catullo possa avere assistito a qualche allestimento dell’Agamennone). Forse più interessanti
e produttive sono le osservazioni relative all’insistenza sul tema della domus nel c. 63: la dialettica tra l’antica, selvaggia
‘casa’ in cui Attis, invasato, ripara (la Troade) e la domus ‘romana’ dell’ego loquens, la cui voce erompe nel finale del poemetto,
è destinata, nota N., a svilupparsi nel motivo augusteo secondo il quale Roma non puo` permettersi di diventare (regredendo)
una nuova versione dell’antica Troia (Verg. Georg. 1.501-502; Aen. 12.828; soprattutto Hor. Carm. 3.3.18-68) 13. Più in
generale, N. tende a vedere simmetrie e sviluppi coerenti di temi poetici all’interno dei carmina docta : per lui,
il c. 68 è unico ed il Manlius apostrofato da un capo all’altro del poemetto dev’essere lo stesso del c. 61, con il
quale si apriva la sezione dei docta. L’idea non è nuova, ma è molto ardua, anche considerando quanto sia difficile
dimostrare l’unitarieta` del carme (problema che N. non affronta, pp. 37-38, ma su cui neppure informa il pubblico dei non
specialisti che leggono la sua opera, limitandosi ad un generico rinvio alla sua più ampia trattazione in Roman Catullus). In verità, in diversi punti si avverte la necessità di una più serrata argomentazione a difesa di scelte esegetiche o testuali
che vengono presentate al pubblico in modo aproblematico. Di alcune di esse già ci siamo occupati sopra, e basterà aggiungere
che Orazio viene rappresentato, p. 12, come severo censore dei carmi erotici di Catullo sulla base di un passo così discusso
e d’incerta interpretazione come Sat. 1.10.17-19; o che l’idea che in Catull. 1.9 con patrona virgo si alluda a Erigone o addirittura
a Nemesi appare non facilmente sostenibile e meritava forse più ampi ragguagli per il pubblico dell’opera (p. 25). Se ci
dedichiamo a problemi testuali, va ancora detto che c. 61.220 è presentato e commentato (p. 11) nella forma tràdita sed mihi
ante labello, difficilmente difendibile, ormai comunemente corretta, secondo la geniale emendazione di Scaligero nel 1577, in
semihiante labello; più ampiamente discusso da N., ma ugualmente poco convincente è l’intervento a Catull. 116.7: ista
tua evitabimus auctu, ove auctu è interpretato nel senso «for we will have progeny» (p. 42): l’idea continua dell’eros e persino
della poesia che ha come suo ultimo effetto la ‘prole’, unico risultato socialmente degno e accettabile, percorre l’intero studio di
N. e, secondo l’autore, la poesia stessa di Catullo (basterà vedere l’importanza dei temi matrimoniali) e la suggellerebbe con
questo distico finale del c. 116. Come che sia, questi pur consistenti motivi di perplessità non bastano ad oscurare i meriti di un libellus che riesce a far
riflettere su alcune idee-forza che dovranno essere sempre valorizzate dallo studioso di Catullo. C’e` da parte di N. una
percezione viva della poliedricità di Amor, che nella poesia catulliana diviene qualcosa di ‘più grande’ del sentimento
erotico, anche a livello di scelte di genere: ed in effetti, l’amore è tema, non ‘genere’, come giustamente ricorda a più riprese
l’autore (vd. soprattutto pp. 16-21); esso si manifesta nell’eros ora morbido ora appassionato, ma anche nelle forme sancite
dalla morale quiritaria, nell’amor di famiglia, nella fides in amicizia, nonché nella fedeltà appassionata ad una idea di
patria e ad una di poesia che val la pena richiamare per una visione ricca e articolata di questo straordinario poeta, dato
che ognuno di questi aspetti illumina gli altri e ne è illuminato. Essi disegnano l’itinerario di un ego che vuole essere
presentato come protagonista unico di una vicenda umana e poetica da apprezzare sulle colonne di scrittura di un libro: ed è
su questo punto che chi scrive dissente con N., pur riconoscendo la fecondità del suo approccio ‘totale’ a Catullo. Del resto,
vedano i più dotti e giudichi la Res publica litterarum. Alfredo Mario Morelli
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