Continua ad imperversare l'interesse intorno alla fortuna 'teatrale' di Didone,1 celebrata histrionum perpetuis et gestibus et cantibus già all'epoca di Macrobio (Sat. 5, 17, 5). Proprio ad una delle più gloriose riscritture teatrali di questo mito rivolge la sua attenzione Rosalba Dimundo nel presente volume: oggetto dell'indagine è il melodramma Dido and Aeneas, capolavoro del massimo compositore del barocco inglese Henry Purcell, su libretto di Nahum Tate. L'opera del Purcell, fondendo magnificamente il portato della tradizione classica con le controverse tensioni dell'epoca barocca, offre all'autrice l'occasione per riflettere sulle inesauribili possibilità dei classici di rispecchiare, ogni volta in modo nuovo, il portato valoriale e i riverberi storici delle epoche che li accolgono.
Dichiarata, in sede di "Premessa" (pp. 7-9), l'adozione di una prospettiva d'indagine che renda merito della complessità ontologica del prodotto classico (nella misura in cui esso è necessariamente condizionato dal contesto storico-politico in cui vede la luce), l'autrice apre la "Prima parte" del volume (pp. 11-54) con un rapido excursus (in vero non indispensabile) sulla produzione complessiva di Virgilio e sull'iter di adesione del poeta all'ideologia imperiale augustea. Segue un breve paragrafo sulla 'variante' mitologica previrgiliana di Didone ("Casta Dido", pp. 20-26), veicolata a partire dallo storico Timeo di Tauromenio (IV-III a. C.), secondo la quale la regina cartaginese non avrebbe mai incontrato Enea e avrebbe preferito darsi la morte piuttosto che acconsentire alle seconde nozze, venendo meno al vincolo di fedeltà coniugale con l'ormai defunto marito; tale variante - come è noto - è stata variamente recuperata soprattutto a partire dagli scrittori cristiani di epoca imperiale che fecero della regina di Cartagine un vero e proprio exemplum di castità e di muliebre virtù. L'autrice passa poi, nel successivo paragrafo ("Amans Dido vs pius Aeneas", pp. 27-33), a considerare la figura di Didone in Virgilio, accennando alla contaminazione con la tradizione storico-letteraria previrgiliana, che contribuirebbe al tratteggio di una figura ben lontana dai modelli femminili della tradizione, per poi mostrare i risvolti ideologico-storici sottesi al racconto di questa vicenda d'amore nell'economia dell'opera virgiliana, richiamando l'usitato parallelismo con Cleopatra, con cui la regina cartaginese condivide la stessa dimensione di alterità rispetto alla quale la Romanitas andò ineludibilmente a contrapporsi. Insomma: nihil novi.
Solo a questo punto l'autrice ritiene di poter entrare in argomento, presentando i principali problemi intorno al melodramma Dido and Aeneas del Purcell, sullo sfondo della generalizzata fortuna del mito didoniano nella tradizione operistica dei secoli XVII e XVIII ("Dalla tragedia al melodramma: Purcell e Tate al cospetto di Virgilio", pp. 34-38; "Il riflesso della storia nell'opera di Purcell / Tate", pp. 39-53): l'autrice passa in rassegna le controverse questioni relative alla datazione del melodramma (la prima rappresentazione documentata risale al 1689, quando l'opera fu messa in scena a Chelsea, in un istituto di nobili educande), alla tradizione della partitura musicale (pervenutaci dai soli Tenbury Manuscript [1750 ca.] e Oki Manuscript [1800 ca.], su cui si basa l'edizione di B. Britten e I. Holst del 1961), all'originaria destinazione e all'esegesi complessiva dell'opera. In ordine a quest'ultima questione, l'autrice vaglia le diverse letture avvicendatesi in seno alla critica, mostrandosi favorevole all'individuazione di un'esegesi di tipo storico-politico: il sacrificio di Didone sarebbe necessario "perché Enea possa fondare la nuova Troia, che a sua volta darà origine ai futuri regnanti d'Inghilterra" (p. 46) - secondo la diffusa idea, risalente all'opera di Spencer The Fairy Queen, di un'origine troiana della Gran Bretagna - e, al contempo, l'ostilità della regina nei confronti dei Romani diventerebbe spia della nota propaganda antiromana ed antipapale dell'Inghilterra di Carlo II e Guglielmo III.
La "Prima parte" si chiude con la presentazione dei contenuti e degli aspetti strutturali del libretto di Tate (composto da un prologo, tre atti ed un epilogo scritto dal commediografo e poeta T. D'Urfey) che si contraddistingue, rispetto all'episodio virgiliano di riferimento, per la straordinaria brevitas e concentrazione degli avvenimenti: quel che più colpisce è l'evidente obliterazione delle fasi dell'amore (al connubio che avviene nel corso della battuta di caccia si allude solo velatamente e a posteriori) dovuta soprattutto, secondo l'autrice, agli scopi comunicativi dell'opera, originariamente destinata alle nobili educande di un collegio di Chelsea, per le quali sarebbe stato certamente più 'educativo' celare i momenti di maggiore trasgressione amorosa, tratteggiando piuttosto una Didone composta e ben cosciente delle false lusinghe dell'amore. Non dovrebbe stupire, in effetti, che la figura di Didone sia stata ritenuta consentanea, una volta epurata di certe sue connotazioni virgiliane (ed ovidiane), ad un tale fine didattico-moraleggiante, se pensiamo che già nel 1599 il gesuita spagnolo Juan Luis de La Cerda - mi permetto di segnalarlo - aveva scritto un'opera volta all'educazione complessiva della donna - la Vida política de todos los estados de mujeres - menzionando più volte Didone, nelle molteplici varianti della sua storia, quale esempio di virtù femminile e onestà morale donde trarre ispirazione.
Nella "Seconda parte" (pp. 55-172) del volume l'autrice propone poi un'analisi del libretto di Tate di cui fornisce, limitatamente al primo e al terzo atto, il testo in lingua originale; la riflessione intorno al libretto si arricchisce con alcune considerazioni relative all'impianto musicale (vengono riprodotte nel volume anche alcune sezioni della partitura) che, inevitabilmente, traduce lo schema drammaturgico del libretto: l'autrice sottolinea, ad esempio, come la struttura bipartita dell'Ouverture sia funzionale ad esprimere dapprima, con un adagio dall'andamento discendente e non lineare, un sentimento di cupo dolore e, successivamente, attraverso un cambio ritmico che rende la musica più rapida e concitata, il turbamento sentimentale nell'animo della regina; e ancora, nel terzo atto, l'autrice mostra come l'atteggiamento sprezzante di Didone nei confronti di Enea sia sottolineato anche dalle scelte musicali allorché la regina, per irridere le parole dell'amato che evoca i ricordi dell'amore vissuto (By all that's good…, v. 36), ne ripete le parole usando le sue stesse note, quasi a farne una parodia, concludendo con un perentorio no more! (By all that's good, no more!, v. 37).
Le due sezioni di commento al libretto ("Peace and I are strangers grown", pp. 71-117; "Musica e pathos", pp. 145-172) sono entrambe precedute da un'analisi dei versi virgiliani che l'autrice individua come ideale ipotesto di riferimento (in particolare i versi 1-55 del IV dell'Eneide per il primo atto ["I tormenti d'amore di una regina", pp. 57-70] e i versi 642-705 per il terzo atto ["Morire per amore", pp. 118-144]) sebbene premetta - e a buona ragione - che il testo virgiliano sia soltanto sullo sfondo del melodramma e che risulterebbe immetodico istituire "un confronto 'artistico' con il modello codice", rispetto al quale la riscrittura "uscirebbe comprensibilmente 'sconfitta'" (p. 53).
Se un diretto confronto col modello virgiliano era già stato apertamente operato da Tate nel Brutus of Alba (e sarà lui stesso a dichiarare di aver modificato in seguito aspetti del soggetto e i nomi dei personaggi - Didone ed Enea, per l'appunto - proprio per non apparire eccessivamente tracotante nel volersi misurare con l'incomparabile Virgilio), mi pare del resto evidente che non sia questa l'intenzione nel caso di Dido and Aeneas, opera per la quale Tate, poeta laureato e profondo conoscitore dei classici, avrà certamente risentito di modelli plurimi e di suggestioni non soltanto virgiliane, canalizzate dal gusto 'barocco' dell'epoca che, al di là dei giudizi di merito, impone necessariamente, nel confronto col classico, determinate scelte di stile e di contenuto. Si aggiunga inoltre che, per questa riscrittura 'inedita' e nobilitante di Didone, fiera e risoluta regina, Tate sarà stato certamente influenzato anche dalla fortunata tradizione previrgiliana del mito (del resto l'Historia di Giustino, che ne costituiva la più ampia formulazione in lingua latina, circolava in traduzione in Inghilterra da oltre un secolo).
Quello che colpisce del libretto del Dido and Aeneas, nel confronto con Virgilio, è infatti la distanza nei temi e nella caratterizzazione dei personaggi: come nota l'autrice siamo di fronte ad una Didone che non inganna se stessa ed è sempre cosciente della pericolosità del sentimento nei confronti di Enea il quale, a sua volta, non ha nulla a che vedere col personaggio virgiliano; Enea irrompe nella scena, nel primo atto, come un impetuoso corteggiatore in preda ad una folle passione, disposto a tutto pur di ottenere l'agognato amore e, quando verrà richiamato all'ordine da Mercurio (un folletto, nella formulazione tipicamente 'barocca' di Tate), accetterà senza convinzione, per poi rinnegare la sua missione di fronte all'amata. Il sistema dei personaggi - sottolinea giustamente l'autrice - risulta quindi capovolto: nel primo atto Didone è insistentemente connotata dalla pietas, tradizionale prerogativa eneadica (con un'operazione - aggiungerei - non affatto inconsueta nella storia del Fortleben della regina cartaginese) e, nel terzo atto, è la stessa regina ad esortare alla partenza Enea il quale, dal canto suo, si lamenta fino ad assumere i tratti elegiaci di un eroe 'abbandonato'. I termini di questo rovesciamento sono inequivocabili nell'atto finale allorquando Enea si rivolge a Didone con l'appellativo di royal Fair (v. 30), dopo aver ammesso la propria vulnerabilità di uomo irrimediabilmente 'perduto'(lost Aeneas, v. 29).
Per riflettere ancor più profondamente intorno all'idea del mito didoniano "sulla scena del barocco inglese" sarebbe stato interessante soffermarsi puntualmente anche sul secondo atto del melodramma, quello che, con più evidenza, manifesta quei toni grotteschi e quelle macabre atmosfere abitualmente riconducibili alla temperie culturale del 'barocco' seicentesco: l'ombra del teso e turbolento clima politico e religioso dell'Inghilterra dopo la Riforma è stata del resto rintracciata da molta parte della critica anche al di sotto di questo tetro scenario in cui si agitano i desideri di vendetta e le macchinazioni della maga e delle streghe ai danni di Didone, detestata al pari di quanti abbiano forza e potenza (The Queen of Carthage, whom we hate / As we do all in prosp'rous state, vv. 10-11).
Ad ogni buon conto, per quanto gli studi intorno al Fortleben di Didone in epoca barocca siano già numerosissimi, questa prospettiva d'indagine del mito non solo risulta sempre interessante ma può ancora arricchirsi di spunti innovativi (mi permetto di segnalare, in virtù dell'affinità tematica, un mio studio di prossima pubblicazione, dal titolo "Didone. Riscritture 'barocche' di un mito", in cui la categoria del 'barocco' viene valutata non solo nella tradizionale accezione di demarcazione cronologica ma anche nella meno frequentata valenza di categoria estetica paradigmatica e al di fuori dal tempo, andando così ad abbracciare epoche e aree di produzione diverse ma ugualmente interessate a far variamente rivivere l'immortale mito didoniano), meritando quindi di essere ancora frequentata nelle molteplici direttrici di studio possibili.
Maria Nicole Iulietto, Perugia
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