Arcangela Cafagna

Dal contesto alla costituzione del testo. Il
I libro delle elegie di Properzio

Postfazione di Paolo Fedeli

Studia Classica et Mediaevalia, Band 14

Rezension


Nell'incipit della veloce introduzione (7-8) l'A. sembra prima porre, come problema di fondo da cui nasce il suo lavoro, quello delle difficoltà testuali presenti nelle elegie di Properzio, risalenti a una tradizione tarda e interpolata che fa sì che nella recensio properziana la critica oscilli fra "interpolazionisti e conservatori"; fa quindi un riferimento per noi prezioso a recenti e ancora inedite ricerche di Paolo Fedeli sulla tradizione manoscritta properziana che - a fronte dei "tentativi di individuare nuove famiglie" di codici per risalire all'archetipo (l'ultimo è quello del più recente editore oxoniense, Heywoth) - consentono di ridurre a N e ad A i manoscritti di cui occorre tenere conto nel I libro: di queste ricerche, ci informa, "si condividono qui i risultati". Detto ciò, sembrerebbe delineato un percorso interpretativo che collega le difficoltà del testo properziano alla corruzione della tradizione manoscritta (più che all'audacia della tecnica compositiva o alle scelte lessicali e sintattiche del poeta) e andando dal contesto alla costituzione del testo, come appunto recita il titolo, inserisce le ricerche dell'A. nel vivace dibattito animato da contrapposti orientamenti di critica testuale a cui la costituzione del testo properziano dà vita. Qual è lo scopo del presente lavoro? La dichiarazione di intenti recita: "La mia vuole essere un'analisi dei contesti maggiormente controversi del I libro"; l'analisi è fatta con riferimento, "ovviamente" ai passi che vedono in disaccordo i più recenti editori e "nella consapevolezza che, di fronte alle infinite congetture al testo properziano, molti altri meriterebbero di essere discussi" (7-8 dell'Introduzione). Così viene illustrato il metodo: "contestualizzare i passi controversi", riducendo all'essenziale la discussione dei passi selezionati: ("alla mole indiscriminata ho preferito la selezione delle voci, antiche e recenti, che si sono rivelate importanti per il progresso della ricerca").

Insomma, il volume si presenta nel titolo e fino a un certo punto della brevissima introduzione come un commento a passi del testo del primo libro di Properzio in cui l'ermeneutica è subordinata o finalizzata a gettare luce sui problemi della tradizione manoscritta (un po' orientato sul tipo di quello pubblicato da S.J. Heyworth nel 2017 ("Cynthia. A Companion to the text of Properce", Oxford), che però è corredato di traduzione ed è di accompagnamento ("a companion", appunto) all'edizione oxoniense ("Sexti Properti Elegos critico apparatu instructos" edidit S. J. Heyworth, Oxford 2007) pubblicata dallo studioso.

Ci troviamo invece di fronte ad un commento al primo libro delle elegie di Properzio (basato sull'edizione teubneriana di Paolo Fedeli) analizzate per intero (senza apparato critico) in cui quel che emerge è l'importanza del contributo dell'ermeneutica, certo supportata da una esauriente discussione dei problemi testuali, all'interpretazione di Properzio (all'analisi delle singole elegie segue una "Bibliografia" divisa in "Edizione e commenti properziani citati e Altre opere citate" più gli "Indici" (di cui stranamente non dà conto l'Indice del libro): 1. "Passi discussi"; 2. "Passi citati"; 3. "Parole notevoli"; 4. "Lingua e stile"); l'analisi prevede la suddivisione delle elegie in gruppi di versi, in grassetto vengono indicati i termini criticamente analizzati. Il commento procede continuo e contestualizza sempre la discussione relativa a problemi esegetici che nascono anche da ragionevoli dubbi sul testo: in questo caso dà sempre conto della scelta operata dall'A. fra soluzioni congetturali o conservative proposte dai vari interventi editoriali succedutisi nel tempo.

Detto questo entriamo un po' nel dettaglio: mi soffermerò, molto brevemente, solo su una sezione del commento alla prima elegia. Per due motivi: 1) altrettanto feci, a suo tempo ("Quot lectores tot Propertii", "Boll. St. Lat." 39, 2009, 143-154) discutendo del volume di Heyworth su citato, perché ora come allora mi sembra utile analizzare l'elegia programmatica; ed anche perché è il modo più immediatamente utile a confrontare il metodo di H. con quello di C.; 2) alla prima elegia (a cui l'A. ha dedicato già in precedenza un articolo: "Properzio 1,1: critica del testo e interpretazione", "BollClass." s. III 35, 2014, 5-47) è dedicato un numero di pagine (9-69) esorbitante rispetto a quello dedicato alle altre.

Mentre nel commento di Heyworth sono fornite note a alcuni versi e gruppi di versi qui, come ho detto, l'intera elegia, senza nessuna nota introduttiva, è commentata in tutti i suoi versi, suddivisa però in gruppi di varia estensione: 1-6, 7-8; 9-14; 15-18; 19-24, 25-32, 33-38.

Dopo aver dedicato le prime sei pagine di quelle (9-23) riservate al gruppo dei versi 1-6 (i termini messi in grassetto sono "Cupidinibus, constantis, lumina fastus, castas …puellas") al commento sul carattere programmatico dell'elegia, sul gioco di allusioni (a Catullo, a Meleagro), sull'unicità del sentimento d'amore per Cinzia, sull'uso del "sermo castrensis", l'A. giunge al commento sulla natura delle "Cupidines" (= gli Amorini); solo a p. 15 affronta però il primo problema forse generato dalla corruzione del testo e relativo a "lumina" (non va accettato "lumine" dei "recentiores": a ragione la questione è risolta sbrigativamente), per dilungarsi poi sul valore del v. 3, che "dà l'esatta dimensione del rovesciamento dei valori tradizionali" della buona società e per giungere infine alla discussione del v. 4; qui interpreta "castas puellas" come donne "di integra moralità" (le donne di nascita libera e di buona famiglia) sulla scorta dell'agg. "improbus" (di cui sostiene l'interpretazione: 'contrario all'etica di un "homo probus"') e di un graffito pompeiano (discostandosi da Fedeli = "duras" e liquidando la suggestiva ipotesi di Heyworth che però arriva a sospettare una corruzione del testo: "castas puellas"= Musas).

Il successivo segmento (7-8) vede messi in grassetto "et mihi … non deficit" del v. 7. L'A. sente l'esigenza di ricorrere ad una soluzione fondata sull'intervento editoriale per superare le difficoltà presentate dal tràdito "deficit" con il dativo (difficoltà per la verità non insormontabili) accettando una correzione proposta da Rossberg nel 1883 e poi accettata da Goold 1990 e da Heyworth (editore non certo ispirato al conservatorismo). La lunga discussione (27-41) dei termini messi in grassetto nella terza sezione (9-14) ("nam modo; et…ille videre, Hylaei, vulnere") si rivela funzionale alla interpretazione complessiva dell'"exemplum" mitico di Milanione e della sua funzione nel contesto (l'interpretazione della funzione 'nobilitante' dell'"exemplum" all'interno dell'elegia che ha un valore programmatico si diluisce un po' nel corso dell'esposizione. In questo senso a p. 28 viene a mio avviso liquidata con troppa facilità l'interpretazione di Coutelle (E. COUTELLE, "Poétique et métapoésie chez Properce". De l'"Ars amandi à l'Ars scribendi", Louvain 2005), che intende i "labores" di Milanione connessi a un discorso di poetica e in riferimento alla composizione letteraria. Ma l'A. soprattutto fornisce una pregevole sintesi delle varie soluzioni che nel corso del tempo gli studi hanno dato alle difficoltà che il passo presenta e una utile testimonianza del modo con cui lavora quando la difficoltà interpretativa è evidentemente connessa con problemi testuali: a partire dalla 'anomala' correlazione "nam modo" … et, e di fronte a quelle che sembrano aporie (molteplici) del testo tràdito, si dichiara a favore della ardita ipotesi della caduta di un distico dopo il v. 11 (confortata dalla 'ripresa' ovidiana in "Ars" 2, 185-192); ragioni soprattutto interpretative e stilistiche la portano invece a preferire a "videre" del testo tràdito il "ferire dei recentiores" (il non certo 'conservativo, H. scrive a p. 7: "Given the uncertainties of the preceding lacuna, no version can be preferred with confidence") e il "vulnere" di N ad "arbore" di A.

Nella sezione successiva (15-18) i problemi dibattuti sono esclusivamente esegetici (l'A. così esordisce a p. 42: "nel pentametro il testo tràdito si impone per la sua singolare incisività, perché nel breve spazio di un verso condensa in un'efficace "sententia" il messaggio morale dell'"exemplum""). Relativamente al "preces" messo in grassetto l'A. conserva perciò la lezione tràdita nonostante la difficoltà da molti sollevata nell'individuare il signicato del termine nella poesia d'amore.

Mi fermo qui, sperando di aver dato sufficiente conto della struttura dell'opera e del suo importante apporto allo studio del primo libro dell'elegie di Properzio, della ricchezza della discussione, della miniera di notizie fornite sugli apporti recenti, ma non solo, della critica. Quale sia l'apporto del commento - in cui le scelte esegetiche fanno da guida a atteggiamenti sempre diversi nei riguardi della tradizione manoscritta - ai progressi della ricerca sui problemi relativi alla tradizione manoscritta di Properzio è però difficile da stabilire.

Desidero invece soffermarmi sulla Postfazione di Paolo Fedeli che impreziosisce il volume. Il titolo: "Postfazione" cela infatti un importante quanto sintetico studio dedicato alla "sphragis" del primo libro, cioè all'elegia 1, 22: di fronte alla brevità 'epigrammatica' dell'elegia e alla 'imprecisione' della risposta di Properzio alle domande sulla sua origine, che immagina che gli abbia rivolto Tullo, il Leo avanzò il sospetto di trovarsi di fronte a un'elegia che, insieme alla ventunesima (pensate come "fragmenta operis maioris"), denotava uno stato di incompletezza che coinvolge la composizione dell'intero libro. Fedeli dà una risposta a questi dubbi e li dissipa, affidando la spiegazione della brevità dell'elegia e della vaghezza della risposta di Properzio non al genere letterario (l'epigramma ellenistico) ma illuminandone il rapporto col modello omerico; in particolare sottolinea l'allusività epica di cui si caricano le domande rivolte al poeta da Tullo ("Qualis et unde genus, qui sint mihi, Tulle, Penates / qaeris pro nostra semper amicitia": 1-2) e di cui si ammantano, nella risposta, i ricordi della patria sconvolta dalla guerra (cfr., per le domande rivolte allo straniero Odisseo che accompagnano le sue peregrinazioni e i suoi approdi: "Od". 1, 170; 19, 105; e, per la vaghezza delle sue risposte, "Od". 7, 241 sgg.; 8, 572 sgg). La novità, 'geniale' di Fedeli non sta nell'avere individuato l'origine omerica del formulario (da tempo riconosciuta e annotata dai commentatori) che dà solennità all'esordio ma nell'avere fatto interagire il modello omerico con il contesto, cioè con i problemi, posti in stretta connessione da Properzio, della vita vissuta e della vita di poeta elegiaco in relazione a chi, come il potente Mecenate, non ne riconosce più le nobili origini ma con cui si vuole riconciliare. In questo senso, il contesto omerico più appropriato a cui riferirsi tra quelli su citati è giustamente individuato nel XIX libro dell'Odissea lì dove ("Od". 19, 105) Odisseo risponde con vaghezza a Penelope che, straniero nella sua patria, non l'ha ancora riconosciuto e chiede al 'pitocco' che ha davanti chi sia, da dove venga, quale siano le sue origini. Alla vaghezza della risposta di Odisseo corrisponde l'incompiutezza nei dettagli di quella di Properzio a Tullo, incompiutezza che d'altra parte "costituisce la più valida garanzia della compiutezza del carme che chiude il I libro delle elegie di Properzio" (384). Properzio così facendo fa infatti di sé un personaggio di epica dimensione e dell'elegia un "degno preludio alla consacrazione poetica che di lì a poco riceverà, con l'accesso al circolo di Mecenate" (384), potente personaggio con cui - come Odisseo con Penelepe - intende ristabilire i buoni rapporti di un tempo (la riconciliazione con Mecenate è poi sancita sin dall'elegia incipitaria del II libro). Sul ricordo della patria sconvolta in passato dalla guerra civile prevale nel distico finale la visione della fertile Umbria: con essa risalta la mediazione operata sul modello omerico da una visione 'virgiliana' dell'atmosfera di conciliazione che si respirava a Roma. Come Enea nel libro VIII dell'"Eneide" (che definisce alle domande di Pallante ("Aen". 8, 114) sé e e i suoi amici "Troiugenae" (117-118), Properzio risponde con un segno di pace che vale a ricomporre lo sconvolgimento presente in una armonia perfetta come quella che regnava in passato.

Valeria Viparelli


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